Just la fin du monde è l’ultimo film di Xavier Dolan, lo straordinario talento canadese che a soli ventisette anni ha già realizzato sei film di livello: presentato poche settimane fa a Cannes è stato premiato con il Gran Prix Speciale della Giuria.
Basato sull’omonima opera teatrale di Jean-Luc Lagarce, narra la storia di Louis (Gaspard Ulliel), scrittore di succeso, che ritorna casa dopo dodici anni per annunciare la sua morte. E’ un dramma da camera, realizzato su primi piani dai quali, anche nel silenzio, emerge tantissimo.
Scrivere pièce era il lavoro di Louis, ma l’ultima e più difficile, quella del suo addio, non è riuscito ad inscenarla come voleva. Nel momento in cui torna nel luogo in cui è cresciuto, riaffiorano sensazioni e ricordi mentre tra i famigliari il muro dell’ incomunicabilità si erge sempre più alto.
Sono sconosciuti che si conoscono da sempre, si sentono estranei ma hanno gli stessi occhi blu: i loro sguardi si evitano, poi si intrecciano, cercano una verità tra le frasi di circostanza. Perchè a Louis ormai non si domanda di rimanere, di dimostrare affetto, si chiede solo la verità; e la richiesta più insistente, delicata o incalzante, si fa nei silenzi.
Per far funzionare un film del genere erano necessarie delle interpretazioni eccezionali, che infatti ci sono: incantano i silenzi e gli sguardi disorientati della cognata (Marion Cotillard), coinvolge la frustrazione e la sincerità della sorella più piccola (Lea Seydoux), trapela l’amore al di là della natura eccentrica della madre (Nathalie Baye), mantiene viva la tensione l’instabile irruenza del fratello maggiore (Vincent Cassel).
Come in Mommy, il precedente film del regista, Dolan ci parla di un caleidoscopio di emozioni, i cui molteplici riflessi si scompongono nella più vasta gamma di sensazioni: affetto, rancore, ammirazione, protezione, distacco. E’ la famiglia il posto dei sentimenti estremi e basta poco, a volte, per creare un distacco incolmabile.
Dolan dà prova della sua crescita senza abbandonare i suoi tratti distintivi: si riconosce tanto di Mommy, Premio della Giuria a Cannes 2014, dalle tematiche alle scelte musicali. Ma l’efant prodige sta maturando. L’ energia vitale, la carica elettrica, l’ impostazione fuori le righe sono ora distribuite con misura e fermezza.
Ciò non vuol dire che venga meno la genuina creatività e la potenza emotiva che sono l’ essenza della personalità registica del ventisettenne canadese: rincorre a perdifiato i sentimenti, inquadra i dettagli, spicchi di volto, alterna i punti di vista, focalizza con maestria.
Senza la sensazione di un’imminente scarica di emozioni incontenibli… non staremmo parlando di Dolan; e per questo gli si perdona se questa tensione esplode in euforiche canzoni pop, ventate di freschezza che rompono inquadrature claustrofobiche.
Ecco le parole del giovane prodigio del cinema d’autore, a seguito della premiazione lungo la Croisette:
Bisogna fare film che ci somiglino. Con il cuore, con l’ istinto e senza compromessi, senza cedere alla facilità. Anche se l’emozione è un’ avventura che spesso viaggia male fino agli altri, finisce sempre per arrivare a destinazione.
E allora Dolan ci presenta un cinema di silenzi e respiri, di urla e lacrime ma anche di dialoghi significativi per personaggi che vivono nell’incertezza di non essere amati e nella paura di non essere accettati. Ma cosa c’è in fondo a tutto questo?
Cosa succede se, mentre pensiamo a come annunciare nostra la morte, un bambino, giocando, ci copre gli occhi con le sue manine?
Vediamo il buio, le percezioni sfumano. Ma, forse, va bene.
E’ solo la fine del mondo.