Julieta (2016) è senz’altro uno dei film che spiega di più l’ultimo Almodóvar: è il prodotto di una fase di transizione dove l’approccio al colore si fa più astratto, con colori saturi che risaltano su sfondi monocromi o grazie a luci chiarissime; i movimenti di camera si raffinano o si semplificano; il tono drammatico risulta sbilanciato e la sua eventuale commistione con la commedia è irrisolta.
In questo dramma turgido e monolitico, però, non c’è nemmeno la possibilità dell’ironia. La storia di Julieta (Emma Suarez da adulta, Adriana Ugarte da giovane) prende spunto da tre racconti di Alice Munro (Fatalità, Fra poco e Silenzio), che il regista combina in sceneggiatura per creare una trama dove non è contemplata la felicità.
Incontriamo la protagonista che si prepara a partire con il suo uomo, Lorenzo (Dario Grandinetti), per andare in Portogallo. Julieta è felice e appagata ma i suoi piani vanno in fumo quando per strada a Madrid incontra Beatriz (Michelle Jenner), vecchia amica di sua figlia Antìa.
La vista della ragazza, che le dice di aver visto sua figlia sposata e con tre figli all’estero, la fa ripiombare nella depressione. Lo shock la porta a scrivere, anche per ricordare lei stessa, i fatti che le hanno creato quella Colpa che ha infettato anche la vita della figlia, lontana da ben 12 anni.
In essenza, è il racconto di un Calvario che il regista vuole narrare con distacco, forse anche troppo, come se non fosse sicuro dell’approccio da avere: il tono è secco, stridente con le musiche di Alberto Iglesias che non si adattano per niente alla semplicità del linguaggio visivo, insolitamente bressoniano.
Il risultato finale manca di armonia e coesione a tal punto da rendere le vicende eccessive e quasi implausibili nel loro susseguirsi. Dal punto di vista attoriale, una menzione deve andare a Rossy DePalma che brilla per naturalezza, invecchiata ed imbruttita nel ruolo della domestica Marian, quasi uscita da Rebecca la prima moglie.
In un film come questo, dove trionfa un determinismo degli affetti, Almodóvar punta non tanto a rafforzare le immagini ma i dialoghi: decide di fare un cinema della parola, di cui spesso si è vantato, senza aver esito felice in Julieta.
Il regista ha dimenticato una lezione importante di Douglas Sirk, suo mito personale: al cinema ciò che è indiretto è molto più forte delle cose manifeste ed esplicite. Paga questa sproporzione con un film che in potenza poteva essere uno dei suoi più intensi.
Antonio Canzoniere