Johatsu. Con questo termine in Giappone ci si riferisce agli “evaporati“, ovvero coloro che, tormentati dalla vergogna del fallimento sociale- che può riguardare la perdita del lavoro oppure anche un momento di difficoltà economiche, o ancora la rottura di un legame matrimoniale-, abbandonano la propria identità, sparendo senza lasciare alcuna traccia.
A spingerli, il timore della riprovazione sociale e la conseguente perdita dell’onore– elemento apicale del sistema dei valori giapponese- per sé e per i propri cari.
In questa fuga nell’anonimato, i Johatsu sono fortemente avvantaggiati dal governo nipponico: questo, infatti, garantisce la massima riservatezza dei dati personali e finanziari dei cittadini (che non possono essere controllati dai parenti e che non vengono sottoposti al vaglio delle autorità a meno che non siano riconnessi a movimenti criminali).
Così, scomparire diventa in Giappone un gioco da ragazzi: basta cambiare nome, luogo di residenza ed attività lavorative.
Tra l’altro, il fenomeno dei Johatsu sta generando, già dagli anni Novanta, un vero e proprio business: sono nate, infatti, agenzie specializzate nell’effettuare le variazioni anagrafiche necessarie alla “evaporazione”, le quali spesso effettuano anche servizi di trasporto notturno per agevolare la sparizione.
Il fenomeno è così tanto dilagante che è sorta un’associazione di sostegno alle famiglie degli scomparsi, che si occupa anche di effettuare indagini gratuite sui Johatsu.
Di recente, il caso dei Johatsu è stato riportato in auge dalla pubblicazione del libro “The Vanished: The ‘Evaporated People’ of Japan in Stories and Photographs“, edito da Skyhorse Publishing nel settembre 2016.
Attraverso il lavoro congiunto dei due autori, Léna Mauger e Stéphane Remael- rispettivamente una scrittrice ed un fotografo, che formano una coppia nella vita di tutti i giorni-, il testo racconta le storie vere dei Johatsu, evaporati senza lasciar traccia, lasciando dietro di sé famiglie, amori, amici.
Le ricerche per il progetto editoriale hanno impegnato la coppia per ben cinque anni, a partire dal 2008.
In questo lungo lasso di tempo, gli autori hanno incontrato anche familiari di Johatsu: molti di loro hanno manifestato il forte desiderio di avere notizie dei loro congiunti, di essere desiderosi di aiutarli; altri, invece, si sono detti rammaricati per il forte dolore e per la vergogna che dovevano avere attanagliato i loro cari al punto da prendere una decisione tanto estrema come la scomparsa.
Inoltre, parte del libro raccoglie le testimonianze di coloro che lavoravano o lavorano nel business delle sparizioni, inclusi i cosiddetti “traslocatori notturni“.
Il lavoro a quattro mani di Mauger e Remael, tra l’altro, li ha portati perfino ad individuare un quartiere di Tokyo, Sanya, ufficialmente abbandonato circa quarant’anni fa, che risulta attualmente essere il rifugio di un gran numero di Johatsu.
Nonostante la mancanza di dati ufficiali a riguardo, Mauger e Remael hanno stimato che più di centomila persone in Giappone abbiano scelto la strada dell’oblio pur di non rischiare di rimetterci la faccia, facendo i conti con le proprie sconfitte personali o professionali.
Il fenomeno non è, però, recentissimo: già un film del 1967– intitolato, per l’appunto, “A man vanishes“, diretto da Shohei Imamura- raccontava di un uomo dileguatosi senza lasciare alcuna traccia, lasciando dietro di sé, sconvolti, un padre ed una fidanzata.
Nel decennio successivo, poi, iniziò anche la fuga di giovani lavoratori dalle campagne verso le città, alla ricerca di un futuro migliore.
La paura di perdere l’onore, di deludere, di fallire che è alla base del fenomeno dei Johatsu, del resto, giunge a condizionare la popolazione nipponica con conseguenze talvolta addirittura più atroci: si pensi alla tragica questione dei karoshi, ovvero i suicidi generati dall’eccessivo sfinimento dettato da cause lavorative nel Paese del Sol Levante.
In merito, un’inchiesta realizzata lo scorso anno ha evidenziato che, su un campione di diecimila lavoratori giapponesi, oltre il venti per cento effettuava almeno ottanta ore di straordinario mensili, mentre il cinquanta per cento aveva rinunciato alle ferie retribuite.
Anche in questo campo, il logorio e l’incremento di karoshi sembrano conseguenza di una concezione secondo cui il dimostrare segni di stanchezza o di necessità di porre un freno alla quotidianità rappresentano un’offesa all’onore. Nonostante l’adozione di misure per arginare tutto questo, queste due forme di “sparizione” sembrano in costante crescita.
Certo il problema è in primo luogo culturale, legato ad un determinato modo di percepire il fallimento e ad una determinata scala di valori, che appare in qualche misura bizzarra agli occhi di noi occidentali.
Eppure, la costante spinta verso l’apparire ed il successo in ogni campo, che ormai inevitabilmente ci accompagna, fa apparire quella dei karoshi e dei Johatsu come una tragedia sempre più vicina ed universale.
Lidia Fontanella