Tra Jihad e crisi climatica: la vita dei nomadi Fulani

Nomadi Fulani

I nomadi Fulani, etnia dell’Africa occidentale e centrale, sono uno dei gruppi etnici più numerosi, antichi e geograficamente diffusi nel continente africano. Il loro patrimonio culturale, poco studiato, comprende pratiche e conoscenze che hanno consentito loro di adattarsi a grandi variazioni del clima in passato. Ma la competizione per risorse sempre più scarse in questa regione e le violenze quotidiane, due fattori spesso intrecciati tra loro, stanno rendendo la vita di questi nomadi più difficile.

 

Origini dei nomadi Fulani

Conosciuti anche come “Peul”, in lingua francesi, i nomadi Fulani abitano prevalentemente la fascia saheliana tra Mali, Niger, Nigeria, Chad, Cameroon e Paesi limitrofi. Divisi in svariati sottogruppi, contano complessivamente una popolazione tra i 38 e i 40 milioni di persone. Le particolari caratteristiche genetiche dei Fulani, diverse dal resto della popolazione dell’area, ha portato un team di ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma e del CNR a condurre uno studio che ha permesso di collocare l’origine di questo popolo durante il cosiddetto periodo del “Green Sahara”, quando al posto del deserto c’erano terre fertili e ricoperte di vegetazione (tra i 5.000 e i 12.000 anni fa).

A quell’epoca, esisteva probabilmente un’unica popolazione sahariana largamente estesa, nomade e suddivisa in sottogruppi in contatto tra loro. Con la desertificazione avvenuta 5.000 anni fa, questi gruppi si sarebbero progressivamente frammentati e allontanati tra loro, mantenendo però caratteristiche simili a causa dell’isolamento e dal mantenimento di stile di vita e abitudini simili.

Proprio queste pratiche abitudinarie hanno permesso loro di adattarsi ai numerosi cambiamenti del clima e dell’ambiente, dalla desertificazione del Sahara al giorno d’oggi. L’UNESCO, insieme all’Association des Femmes Peules Autochtones du Tchad, ha di recente lanciato un programma per cercare di capire e raccogliere conoscenze tradizionali utilizzate per far fronte agli effetti dei cambiamenti climatici, che hanno permesso a questo popolo di prevedere di volta in volta le variazioni del clima e spostarsi di conseguenza nella direzione migliore.

Pastorizia e siccità

La maggior parte dei nomadi Fulani si dedica prevalentemente alla pastorizia ed è nomade, mentre altri si stabiliscono per alcuni periodi in certe aree dedicandosi a un’agricoltura di sussistenza. In molti casi si tratta di ex pastori costretti a diversificare le proprie attività dopo aver perso il bestiame per la siccità o la diminuzione delle terre disponibili al pascolo. Questo principalmente a causa della privatizzazione delle fonti d’acqua, del land grabbing e delle limitazioni alla libera circolazione di persone e rispettivi pascoli.

I nomadi Fulani hanno sempre praticato la transumanza transfrontaliera in base alle stagioni e al clima, ma sempre più spesso superare confini anche intrastatali – come quelli tra un distretto amministrativo e l’altro in Chad – è problematico o prevede il pagamento di numerose tasse.

Il Sahara sta avanzando anche verso le pianure intorno al fiume Niger, fonte di sostentamento per milioni di persone. Qui l’alternanza tra stagioni delle piogge e ritiro delle acque permetteva, in questo secondo momento, il pascolo del bestiame di popoli nomadi del Sahel come i Fulani. Le siccità sempre più gravi hanno intaccato questo vitale meccanismo di alternanza e prosciugato sempre più il fiume, costituendo uno dei tanti fattori che ha alimentato tensione tra diversi gruppi.

Jihad africano, convivere con la violenza

Il clima di violenza quotidiano in cui vivono molti nomadi Fulani si è intrecciato da diversi anni con le dinamiche del jihadismo africano che interessano la fascia saheliana. Tuttavia la realtà è più complessa e sfaccettata, rendendo spesso difficile e inutile etichettare gruppi e definire rigidi schieramenti. I Fulani vengono rappresentati di volta in volta come vittime o carnefici, a seconda di chi riporta i fatti.

Le rivalità tra agricoltori Dogon e pastori Fulani, per esempio, sono state spesso strumentalizzate dal governo di alcuni Paesi coinvolti come il Mali, nonché da diverse fazioni jihadiste che da oltre una decina di anni si sono progressivamente imposte in queste aree. I nomadi Fulani accusano il governo maliano di aver armato e incoraggiato la creazione di gruppi di autodifesa Dogon, nel quadro di una lotta al terrorismo che li vedrebbe nel mirino.

Il fondatore del Fronte di Liberazione di Macina, gruppo armato ribelle che si è poi fuso con altri gruppi jihadisti dichiarando la propria affiliazione ad Al Qaida, è infatti un predicatore radicale Fulani di nome Amadou Koufa. Se è vero che si è reso responsabile di diversi attacchi alle forze armate maliane e del reclutamento di tanti appartenenti alla sua stessa etnia, molti Fulani dichiarano di essere stati costretti a sottomettersi all’autorità dei jihadisti, con la violenza o per mancanza di alternative. Nelle zone in cui si sono insediati i jihadisti, infatti, lo Stato è quasi assente.

Tra il 2018 e il 2019 milizie Dogon hanno iniziato a prendere di mira villaggi Fulani massacrando i loro abitanti, costretti a rifugiarsi in campi per sfollati spesso sorti in maniera informale. Sebbene secondo il governo vi sia un solo campo ufficiale, ne sono stati contati almeno una ventina con oltre 60.000 sfollati in condizioni precarie e insalubri. Ma i Dogon, che si sentono sempre più minacciati dall’utilizzo dei loro campi come aree di pascolo dai nomadi Fulani, accusano questi ultimi di essere terroristi o loro complici e dichiarano di attaccare per difesa.

I soldati governativi, nel portare avanti rappresaglie di controterrorismo in zone che non sono loro familiari, si sono fatti aiutare dai Dogon per penetrare nei territori Fulani. Così, i jihadisti avrebbero ucciso contadini Dogon e bruciato le loro riserve di grano per vendicarsi. Da lì il passo verso un’escalation di violenze è stato breve: ambedue le parti dichiarano di aver imbracciato le armi per difendersi l’una dall’altra, in certi casi unendosi a gruppi jihadisti, ma non sempre. Ecco perché è spesso fuorviante leggere queste dinamiche unicamente come legate alla radicalizzazione del terrorismo islamico.

I nomadi Fulani, come i Dogon e tanti altri gruppi della regione saheliana, prendono le armi per cercare di fare giustizia in territori dimenticati dall’autorità centrale. Ma così facendo subiscono arresti ed esecuzioni sommarie con l’accusa di terrorismo, punta dell’iceberg in una regione che assiste a una progressiva riduzione delle sue risorse e a tensioni crescenti per l’accesso alla terra e all’acqua.

Clementina Udine

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