Paolo VI, che non era certo uno sciocco, allo scandalo dei cattolici oltranzisti di fronte alla rappresentazione rock di un Gesù Superstar adorato da folle di hippies ballerini, rispose con entusiastico plauso dell’opera e con l’invito a Roma del cast: sapeva bene che una così travolgente volgarizzazione pop della parola evangelica era la migliore applicazione contemporanea del significato di Cattolicesimo (da “universale”, “diffuso”).
Parliamo ovviamente di Jesus Christ Superstar, l’opera rock composta da Andrew Lloyd Webber con testi di Tim Rice, divenuta celeberrima per la successiva versione cinematografica.
Lasciando da parte considerazioni (legittime, ma che meritano approfondimenti ad hoc) sulla delicatezza nel maneggiare artisticamente un racconto sacro (paradossalmente, il musical dovrebbe irritare più gli gnostici eretici che i cattolici ortodossi), vi raccontiamo la prima della riproposizione romana del musical più famoso.
Nuovamente al Sistina, in scena fino al 16 Dicembre. Una versione che ha la sua immediata attrattiva nella presenza dell’interprete originale del Cristo (nel film), divenuto celebre a livello globale per la straordinaria adesione con l’iconografia convenzionale, il bravissimo Ted Neeley.
Forse non tutti sanno che il ruolo originalmente era stato interpretato da Ian Gillan, la voce straordinaria dei Deep Purple, che infatti appare nell’incisione originale da cui è stata tratta la celebre pellicola.
Gillan non partecipò alla prima a Broadway e alla pellicola: la Storia chiamava, ovvero il tour che porterà i Deep Purple a incidere lo storico Made in Japan. Fu, appunto, sostituito da Ted Neeley per il film.
Parliamo di una pellicola del 1973. All’inizio dello spettacolo romano, si sente che la voce (ovviamente) non è quella di 45 anni fa, soprattutto nell’acuto finale del dialogo con Judas durante la splendida Everything’s alright, perfetta fotografia del controverso punto di congiunzione tra mentalità hippy e sapienza orientale (forse, in quel momento, a differenza del film, la complicità sensuale cercata da Maddalena è rappresentata con un eccesso di romanticismo).
Potente invece l’irruzione nella scena di The Temple, che cancella ogni dubbio sulla scelta di riproporre l’attore originale a 75 anni.
Neeley conquista il pubblico nei brani della meditazione solitaria, la dolente Poor Jerusalem ma soprattutto con una interpretazione commovente e trascinante di una delle vette dell’opera: Gethsemane (I Only Want to Say), la versione drammaticamente rock del momento di esitazione del Cristo nell’Orto dei Getsemani. Dopo 45 anni, la voce si è abbassata (è fisiologia), ma non il carisma.
Alla fine, l’ovazione è meritata, non solo per rispetto al vecchio leone (per citare Narnia di C.S.Lewis) Neeley, ma anche per i giovani interpreti.
Segnaliamo in particolare: il brasiliano Nick Maia in Judas (non era facile non far rimpiangere il memorabile originale del compianto Carl Anderson); la spettacolare performance di Giorgio Adamo in Simone; i credibilissimi Francesco Mastroianni (Caifa) e Paride Acacia (Hannas); Andrea Di Persio come Pilato, bravo nel rendere forse il brano più bello dell’opera, Pilate’s Dream; il correttamente eccessivo Salvador Alex Torrisi nel delirio beffardo di Erode; Simona Di Stefano, una Maddalena senza sbavature, degna interprete di un ruolo non facile; Mattia Braghero, che esce bene bel finale nel ruolo di Pietro.
Non dimentichiamo il grande cuore dello spettacolo, l’impeccabile orchestra rock del Maestro Emanuele Friello.
Insomma, lasciando perdere in questa sede meditazioni più complesse sui rapporti tra Estetica e Sacro, dal punto di vista meramente spettacolare, quello portato in scena Massimo Romeo Piparo, fedele alla versione originale, vale il prezzo del biglietto.