The Last Dance è stato senza dubbio uno dei fenomeni mediatici di questa quarantena. La docu-serie prodotta da ESPN e distribuita in Italia da Netflix ha raggiunto infatti risultati stratosferici, diventando in meno di due mesi la serie più vista in assoluto su Netflix Italia e facendo riaffiorare nel Bel Paese un’enorme passione per l’NBA.
La serie narra le gesta di quella che è probabilmente la squadra di pallacanestro più forte della storia, con al suo centro il giocatore più forte di tutti i tempi e alla guida il migliore allenatore: i Chicago Bulls degli anni 90′. La storia, raccontata perfettamente grazie ad un mix di interviste attuali e filmati dell’epoca, in uno stampo fin troppo “cinematografico” più che “documentaristico”, con personaggi caratterizzati in stile blockbuster hollywoodiano. Dall’eroe Michael Jordan, l’inseparabile spalla del protagonista Scottie Pippen, l’antieroe Dennis Rodman, la “guida” Phil Jackson e finendo con quello che, per gran parte della storia, viene identificato come il cattivo, Jerry Krause. Cattivo però senza il cui “The Last Dance” e i leggendari Chicago Bulls probabilmente non esisterebbero.
Il ragazzino cicciottello di Chicago, Illinois
Jerome Krause nasce e cresce a Chicago, dove mostra fin da subito un’amore sconfinato per lo sport, basket e baseball in particolare. L’amore però non è corrisposto, Jerry è un ragazzino basso, cicciottello e poco altetico, e questo lo relega ad un ruolo più che marginale nella squadre di baseball dell’high school. Jerry però non si arrende e si reinventa come giornalista sportivo per una rivista locale, studiando nel frattempo giornalismo alla Bradley University. Qui arriva l’illuminazione, passando il suo tempo libero nella palestra del college, dove stila dettagliatissime statistiche sui giocatori della scuola, Jerry Krause ha capito, farà il talent scout.
Finito il college Krause iniziò a lavorare come scout NBA per i Baltimore Bullets, lì si guadagnò la fama di ottimo scopritore di talenti, portando alla ribalta il suo primo grande giocatore, Earl Monroe, futuro vincitore dell’anello. Durante il Draft 1967 Kruse suggerì ai Bullets la scelta di una giovane ala dell’Università del North Dakota, i Bullets non scelsero quel ragazzo che andò ai Knicks, ma per uno dei tanti casi del destino, Jerry Krause ci rimase in contatto.
Gli anni passarono e Krause continuò il suo lavoro di scout passando fra varie franchigie NBA, fino a cambiare sport e iniziare a lavorare per i Chicago White Sox. Ai White Sox un ormai affermato Krause conobbe Jerry Reinsdorf, proprietario della squadra che, riconosciuto il suo talento gli offrì il ruolo di General Manager per l’altra sua squadra: i Chicago Bulls.
Krause l’architetto
Jerry Krause approdò alla guida dei Bulls con un obiettivo ben preciso, costruire una squadra vincente intorno all’astro nascente della squadra: Michael Jordan. La base non era sicuramente delle migliori, Jordan affermò infatti di aver visto più volte i senatori di quei Bulls prima e dopo le partite dare feste a base di droga e alcol, era un’altra NBA. Inoltre la piazza era decisamente fredda, i tifosi dell’epoca non erano particolarmente abituati alle vittorie, i Bulls giocavano infatti abitualmente intorno a 6 mila spettatori, numeri lontani da quelli dell'”era Jordan”.
Partendo da questa poco solida base Jerry Krause ebbe le sue prime intuizioni geniali. Prima su tutte la “pesca miracolosa” del Draft 97, dove il GM dei Bulls prese in un solo colpo Scottie Pippen, probabilmente il miglior “secondo” della storia del basket, e Horace Grant fondamentale per i primi 3 titoli dei Bulls. Poi, nel 1988, scambiò Charles Oakley, uno dei migliori amici di Michael Jordan, per Bill Cartwright. Fu qui che i rapporti fra il campione e il GM iniziarono a incrinarsi, ma l’intuizione si rivelò azzeccata dato che Cartwright fu poi importantissimo per porre fine al dominio Pistons.
Infine Krause diede al secondo allenatore Tex Winter le redini tecniche della squadra, gettando le basi del famoso “triangolo“. Mentre diede il compito di mettere nella testa dei giocatori le tattiche di Winter a quella giovane ala dei Knicks con cui era rimasto in contatto, il nome di quel ragazzo era Phil Jackson, e gli diede il ruolo di primo allenatore.
La nascita della leggenda
Il gioco è fatto, le fondamenta della leggenda sono gettate, i Bulls interrompono la legacy dei Pistons e spadroneggiano per tre anni. Poi i primi dissapori, dopo la pubblicazione del libro The Jordan Rules si apre una breccia fra i protagonisti di quella squadra, Krause inizia a mal sopportare il fatto che Jackson sia considerato l’unico artefice dei grandi Bulls, fra i due inizia una Guerra Fredda. Anche il rapporto con i giocatori iniziò a deteriorarsi, in particolare quello con Pippen, a causa del mancato adeguamento del suo contatto e dell’acquisto del croato Toni Kukoc.
Kukoc però, insieme a Steve Kerr e Dennis Rodman, si rivelano le nuove grandi intuizioni del GM dei Bulls, che trasformano una grande squadra come quella del primo three-peat nella squadra più forte della storia del gioco.
La fine di Jerry Krause e dell’era Jordan
Tutte le storie però sono destinate a finire. Infatti la colpa che più viene attribuita a Krause è quella di aver “rotto il giocattolo” Bulls. Nel 1997 i rapporti divennero troppo tesi, si arrivò al limite e Jerry disse che non avrebbe riconfermato Jackson “nemmeno se quest’anno finiremo 82-0”. Iniziò così la rapida dissoluzione della squadra più forte della storia del basket, i Bulls persero infatti alla fine del 1998 tutti i principali interpreti di quella squadra.
Jerry Krause rimase a Chicago, ma non riuscì a rifondare quella grande squadra, nata dall’incontro di tante personalità così differenti ma che per anni hanno lavorato in sinergia per il raggiungimento di un obiettivo comune. I Chicago Bulls erano anche Michael Jordan, ma non erano solo Michael Jordan; e il più grande merito per l’incontro di questi personaggi va senza dubbio a Jerry Krause, l’architetto di quei Chicago Bulls. Un uomo dal carattere sicuramente non facile, smanioso di comandare, ma che non ha sicuramente ricevuto i giusti onori. A testimone di questo non gli fu mai concesso un posto nella basket Hall of Fame fino alla sua morte, avventuta nel 2017 a causa di complicanze legate alla sua obesità.
Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. A Krause quel che è di Krause, il ragazzino cicciottelo di Chicago che non vide fino alla fine completamente ricambiato il suo amore per lo sport.
Michele Larosa