A Jeremy Bentham si fa riferimento, di solito, quando ci si occupa di etica o di filosofia del diritto. La sua celebre “aritmetica morale”, fondata sulla dottrina della maggior felicità per il maggior numero possibile di persone, è uno dei cardini dell’utilitarismo. Non tutti sanno, però, che applicando la riflessione al tema della libertà sessuale, nel 1785 Bentham formulò una delle più acute e interessanti difese dell’omosessualità. Di cosa si tratta?
La libertà, come l’essere aristotelico, si dice in molti modi. Al filosofo Jeremy Bentham, tra i padri dell’utilitarismo e del liberalismo interessavano tutti. Le sue indagini, infatti, spaziarono dalle condizioni di vita dei ceti meno abbienti al sistema carcerario, fino ai diritti degli animali. Colpito dalla severità con cui la giustizia perseguiva gli omosessuali, nel 1785 scrisse il pamphlet Difesa dell’omosessualità. Il testo, modernissimo nella sua ironia, costituisce ancora oggi un interessante esempio di come il discorso filosofico possa decostruire argomentativamente uno stigma.
Punto di partenza è una constatazione:
Per anni ho cercato una ragione che giustificasse la severità con cui simili reati vengono puniti ai nostri giorni da tutte le nazioni europee. In base al principio di utilità, non ne ho trovata nessuna.
Cosa intende Bentham con il termine “principio di utilità“? È il filosofo stesso a chiarirlo:
La natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e il piacere. […] Il principio di utilità riconosce tale soggezione. E la assume a fondamento di quel sistema il cui obiettivo è innalzare l’edificio della felicità per mezzo della ragione e della legge. […] Tale principio approva o disapprova un’azione in base alla sua tendenza ad aumentare o diminuire la felicità della parte il cui interesse è in questione. […] La comunità è un corpo fittizio, composto dalle singole persone considerate come sue membra. Quindi che cos’è l’interesse della comunità? La somma degli interessi dei vari membri che la compongono. […] Quindi un’azione è conforme all’utilità (rispetto alla comunità in genere) quando la sua tendenza ad aumentare la felicità della comunità è maggiore di ogni sua tendenza a diminuirla.
[Introduzione ai principi della morale e della legislazione, I, 1789]
Punire l’omosessualità con ferocia insomma, argomenta Bentham, è filosoficamente e giuridicamente privo di senso.
Ma allora, si chiede Jeremy Bentham, pur risultando inutile alla comunità la severità delle punizioni che colpiscono gli omosessuali, cosa la motiva?
In fin dei conti, riflette l’autore del saggio, il danno inflitto dagli omosessuali alla società – ammesso che esista – è remoto e incerto. Non sono pericolosi come gli assassini, i ladri, i traditori; perciò, è il caso di sospettare una diversa motivazione di fondo. In particolare, è possibile sostenere che
la disposizione a punire ferocemente non abbia avuto altro fondamento che l’avversione dei giudici nei confronti dell’imputato.
Tale avversione, secondo Bentham, affonda le proprie radici nella repulsione fisica che suscita l’atto in chi ha un’inclinazione diversa. Così, se si osserva il fenomeno con attenzione, diventa possibile ricostruire con precisione millimetrica la genealogia dello stigma e dei suoi effetti nefasti. Infatti,
l’atto è odioso e ripugnante non per chi lo pratica, che lo pratica proprio perché gli procura piacere, ma per chi se lo immagina. Ma se è così, che cos’ha a che fare con lui? Egli è libero di farlo, come lo sono io di astenermene. […] Eppure, questo ragionamento, anche se corretto, non trova molte persone disposte a seguirlo con la dovuta serenità. […] Se un uomo dimostra una totale avversione verso una certa pratica, vuole ardentemente veder puniti tutti coloro che vi si dedicano. E subito accamperà qualsiasi pretesto, per futile che sia, pur di giustificare la propria intolleranza.
Alla riflessione filosofica, allora, sta identificare come tali i pretesti impiegati per giustificare l’ingiustificabile e smascherarne l’inconsistenza. Cosa che all’interno del testo Bentham fa passando ogni argomentazione – con un approccio interdisciplinare incredibilmente moderno – al vaglio della logica, delle testimonianze storiche e dell’antropologia.
Contro ciò che non c’è ragione di credere
Sono numerosi gli argomenti a favore della severità delle pene contro gli omosessuali che Jeremy Bentham vaglia criticamente e rigetta in Difesa dell’omosessualità. Leggendo il testo a quasi due secoli e mezzo di distanza, ciò che colpisce maggiormente è forse la tenacia di determinate argomentazioni. Che, dal motivare la ferocia nel perseguimento degli omosessuali, sembrano essere state riadattate da un certo discorso pubblico per la loro esclusione dai diritti civili. La più frequente è probabilmente quella che vede nell’omosessualità una minaccia alla natalità all’interno della popolazione. A questo proposito, Bentham osserva:
esaminando il problema a priori, scopriremo che non è la forza dell’inclinazione di un sesso verso l’altro a essere la misura del numero di esseri umani. Il discrimine è la quantità dei mezzi di sussistenza che essi sono in grado di trovare o produrre in un dato luogo. […] Se, dunque, fosse stato lecito mandare al rogo gli omosessuali per conservare la popolazione, i monaci sarebbero dovuti essere ugualmente arrostiti a fuoco lento.
Anche l’argomento che vorrebbe l’omosessualità “contro natura” pare al filosofo britannico alquanto debole. Storicamente, infatti, se ne ritrova traccia in qualche misura presso i popoli più disparati, senza che questo intacchi il loro valore o la loro cultura. Del resto il gusto stesso per la musica e l’arte non hanno alcunché di naturale in senso stretto: dovremmo allora stigmatizzarli in quanto “contro natura”? Ciò, naturalmente, sarebbe ridicolo. Eppure, a troppi ancora oggi non sembra ridicolo fare appello alla natura per sostenere un odioso pregiudizio.
Il testo di Bentham è, in effetti, un antidoto potente contro il pregiudizio. Esso, infatti, mostra all’opera le capacità di smascheramento proprie della filosofia, che eversivamente può accompagnare la ricerca fondata con una caustica ironia. Perché del bigottismo e dell’ignoranza – è questa la maggiore lezione di metodo del filosofo – si può ridere. Senza rinunciare intanto, però, nemmeno per un momento, a coglierli in fallo e sconfiggerli sul loro stesso terreno.
Valeria Meazza