“Jeeg Robot” era il film che in Italia non si sarebbe potuto fare.
Era il film a cui nessuno avrebbe dato fiducia: noi non siamo l’America, non ci sono le conoscenze tecniche, la cultura cinematografica, i fondi. E poi, cosa c’ entra l’Italia con i supereroi? Progetti del genere erano prematuri, presuntuosi.
Dal 25 Febbraio, invece, qualcosa nel panorama cinematografico è cambiato.
Il nome di Gabriele Mainetti è sulle bocche di tutti ed il suo film, pluripremiato ai David di Donatello, ha riempito di ammirazione il cuore degli amanti del cinema, in un periodo che tra l’altro appare come un’ottima stagione per la produzione italiana.
Jeeg Robot esprime con una sconvolgente forza di sentimenti i drammi e i sogni di personaggi indimenticabili con fantasia e delicatezza, fra le crude periferie romane. Il protagonista, Enzo Ceccotti, che paradossalmente non sa chi sia Hiroshi Shiba , ne è il veicolo emotivo e dà anima ad una storia che in realtà è molto semplice:
Un uomo che non crede in se stesso incontra una donna che è una sorta di grillo parlante, che attraverso una relazione intima e profonda infrange questa corazza. Lui si accorge del mondo che gli sta intorno, un mondo che ha rifiutato perché gli ha tolto tutto e dal quale ha paura di prendere qualcosa perché sa che prima o poi glielo toglierà; e infatti così succede. Però in realtà la relazione lascia qualcosa e quel qualcosa permette il fatal flaw: il personaggio si rende conto che qualcosa è cambiato e ci si emoziona molto… e lui va, va, vola tra lampi di blu.
Forse è ancora più straordinario pensare che tutto questo è stato creato da un ragazzo che non troppi anni fa era uno studente al DAMS di Roma Tre, università della capitale; un ragazzo come tanti altri, che si è fatto strada fra le vie del mondo cinematografico con idee e progetti coraggiosi ed innovativi.
E a Roma Tre è tornato in occasione della serata conclusiva dell’11a edizione del Roma Tre Film Festival, diretto da Vito Zagarrio presso il Teatro Palladium. In quest’ occasione, crocevia di talenti che si propone l’incontro fra appassionati e personalità già affermate nel settore, Gabriele Mainetti dialoga con gli studenti con estrema affabilità e simpatia, incoraggiandoli ad amare la cultura e a sperimentare, esponendo la realtà umana che vi è dietro la realizzazione del suo film.
Il successo di Jeeg Robot sta nel fatto che esso sia un film per il pubblico, non un film ombelicale. Non è un film di genere che parla solo di genere e tralascia la contemporaneità.
Mainetti si avvicina ai problemi, alle fragilità dell’uomo, ad un realtà sociale inclemente anche se non priva di liricità: il film parla di riscatto sociale strumentalizzando l’archetipo universale dell’eroe, in modo che tutti possano parteciparvi. Si è voluto creare insieme spettacolo e cinema.
Far funzionare qualcosa che sia fantastico in un contesto puramente reale, la formula, giocare con elementi per certi aspetti propri della commedia all’italiana, passare dal comico al dramma in un nanosecondo: ecco solo alcuni dei punti forza del film del regista romano.
L’ errore più grande nel quale si può incorrere quando si affronta il genere è quello di parlare solo di genere, noi questa cosa non l’abbiamo mai fatta.
Negli ultimi decenni, nel panorama cinematografico italiano si è andata ad affermare una contrapposizione tra film d’autore e film di genere: forse ora il cinema italiano sta sdoganando il genere? Si sta concretizzando l’ipotesi un’industria media che non sia solo quella intimista e ambiziosa degli autori?
La speranza che veicola tramite questo film è che lo sguardo cinematografico italiano possa arricchirsi, recuperando il passato ma non citandolo con nostalgia priva di identità, slacciandosi da una tradizione autoriale che troppo spesso compatisce il disagio sociale attraverso uno sguardo prettamente borghese.
Chi ama il film lo sa fin troppo bene: un altro pilastro della sua buon riuscita è sicuramente l’interpretazione attoriale.
I grandi attori escono fuori quando sono scritti grandi personaggi: Enzo, lo Zingaro, Alessia sono caratteri meravigliosi, con una tridimensionalità che spesso nel cinema di italiano non si incontra, personaggi che maturano un’evoluzione significativa.
Mainetti ci rivela che Luca Marinelli non è quello che vediamo sullo schermo, è un ragazzo molto introverso che però aveva un’idea di quello che poteva essere la follia dello Zingaro; gli altri attori candidati erano ricchi di rabbia ma esitavano a esternare l’intelligenza e raffinatezza del personaggio.
Lavorare con Marinelli, confida il regista, non è stato semplice, in quanto faticava ad avvicinarsi ad un sentimento di pura cattiveria. Un giorno disse “io non sono uno cattivo”; e questo potrebbe farci riflettere, oltre che sulla complessità e intensità della sua performance, su quanto anche l’ultimo film di Claudio Caligari avrebbe meritato una maggiore considerazione da parte della critica italiana.
Marinelli, nel quale riconosciamo ispirazioni tratte da Norman Stensfield di “Lèon” e Buffalo Bill de “Il silenzio degli innocenti”, è un uomo senza pietà / uno che non si è mai sentito finito/ che non ha mai perduto mai.
Il rapporto di stima e fiducia con Mainetti va a consolidarsi fino a trasformarsi in una stretta collaborazione anche per quanto riguarda la scelta delle canzoni da interpretare. Le musiche, invece, sono realizzate dallo stesso regista in collaborazione con Michele Braga: una colonna sonora minimale, elettronica che va evolvendosi fino ad un tripudio di archi.
Claudio Santamaria, d’ altra parte, attraverso un approccio più tecnico, giunge a permeare completamente l’identità del super eroe co’ le scarpe de camoscio, che grazie all’ amore candido di una ragazza riscopre se stesso, Hiroshi Shiba, e si spoglia dell’ involucro duro ed ermetico che lo avvolgeva per ricominciare a provare qualcosa di autentico.
E questa ragazza è Alessia, una donna bambina dall’animo complesso e ferito, vittima di abusi, che riesce a vedere oltre il degrado di quella vita di rapine e ingiustizie.
Ad interpretarla è Ilenia Pastorelli, assoluta debuttante con la sola esperienza di un reality show: andando oltre i pregiudizi, Mainetti ha visto in lei qualcosa, la capacità di riutilizzare le proprie emozioni personali per calarle in Alessia. Con lei l’ inesperienza veniva totalmente compensata da una grande umanità.
Impreziosito dai tre vicitori del David di Donatello, Jeeg Robot è un prodotto davvero ricco di contenuto.
E’ un film con le pistole e con i sentimenti.
E’ un film dove c’è violenza; ma la sua visione, come tipicamente nei film di Takeshi Kitano, è strumentale ad una purificazione.
Tra i sostenitori già si spera in un sequel, mentre qualcuno ritiene che il materiale avrebbe dovuto essere già stato suddiviso. Mainetti riconosce che, in effetti, là dove si risolve il fatal flow del protagonista si poteva chiudere il film; ma sarebbe stato il tipico approccio europeo in cui si evita il gran finale. Lui, semplicemente, quel gran finale, quello scontro tra bene e male, voleva farlo.
Non si pensava di continuare Jeeg robot, ma visto il successo, chi sa che succede a Marinelli…
In conclusione, a dichiarare il trionfo del film, non si poteva immaginare critico più autorevole di Go Nagai, autore dello storico fumetto, che durante il Festival del cinema italiano di Tokyo, tra complimenti e un invito a cena, ha donato a Mainetti un almanacco autografato di tutti i suoi lavori dal ’67 al 2007.
A chi pensava che il regista italiano avesse intaccato la sacra figura di Jeeg Robot, questa sembra essere un’ ottima risposta.
Corri e và per la terra / vola e và tra le stelle / tu che puoi diventare Jeeg