Dal giogo della schiavitù si eleva un canto di libertà, di giustizia e di pace. Dai campi di cotone, dai blues intonati con la schiena ricurva, dagli spiritual, dai jubilees di redenzione, dalle frustate, le violenze, la sottomissione, nasce una musica rivoluzionaria che fonde la cultura africana con quella europea: il jazz.
La schiavitù
Non bastò lo sterminio dei nativi ai primi coloni americani. No. Fondarono, soprattutto nel sud, un’economia retta dalla schiavitù. Mutilazioni, stupri, violenze, torture erano all’ordine del giorno. Gli africani venivano privati non solo della libertà e dei più elementari diritti umani, ma della loro cultura, delle tradizioni, delle credenze, della religione. Nei campi intonavano canti contro l’oppressore, per allontanare il dolore, scandire il ritmo massacrante di lavoro, sognare la terra perduta, gli affetti, la luce, i suoni e i colori della libertà: nacque il blues. Il blues non è musica di dolore, come erroneamente si può credere, ma musica dal carattere consolatorio, in cui le note e le parole servono a estraniarsi dal dolore, a sublimarlo. Obbligati dagli schiavisti a praticare il cristianesimo e rinnegare la propria religione, gli schiavi inventarono gli spiritual, inni sacri accompagnati dal battito delle mani, dal movimento, in cui si improvvisava e le voci si sovrapponevano. Dal blues e dagli spiritual, ovvero da ciò di cui gli schiavi non potevano essere privati, vale a dire la musica (sebbene certi generi venissero praticati in clandestinità), nacquero il jazz, il gospel, il soul e, col tempo, il rock’n’roll.
Il jazz
Il jazz, jass o jaz propriamente detto nasce ai bordi delle strade, nelle bettole, nei bordelli. Nasce da forme musicali miste che fondevano la musica a urla, schiamazzi, strombettate utili a intrattenere i bianchi in quei locali interdetti ai neri. I neri entravano dalla porta di servizio e gli serviva un permesso specifico per lavorare, di cui spesso, per puro sfregio, erano privati. Presto, a New Orleans nacque il ragtime. Nacque soprattutto dalle parate e dai cortei funebri, chiassosi e colorati. L’evoluzione del genere passa per lo swing degli anni Venti, il bebop, l’hardbop, il cool, la fusion e il free, ma a connotarlo, anche nelle sue ramificazioni più apparentate alla musica europea, come il cool, è la sua essenza popolare. Il jazz è la prima espressione artistica propriamente americana, nata dalla musica degli schiavi e contaminata con la cultura dei colonizzatori.
Jazz e politica
Il jazz è una forma musicale improvvisata. Che l’improvvisazione si sviluppi a partire da un tema o in forma propriamente libera, il legame con le radici di tale musica è sempre approfondito, sviscerato, amplificato. E non solo dal punto di vista espressivo. Il rapporto del jazz con la politica è viscerale. Il jazz è musica popolare fatta soprattutto da neri che non godevano dei più elementari diritti umani. È quindi da una controcultura che nasce la prima manifestazione culturale propriamente americana. Ascoltando Alabama di Coltrane, che riecheggia un discorso di Martin Luther King, Strange Fruit di Billie Holiday, che racconta come dagli alberi del sud pendano degli strani frutti, ovvero i corpi dei neri impiccati dai bianchi, Freedom di Sonny Rollins, si entra in un mondo cupo. A quel mondo vergognoso fatto di razzismo e ingiustizia, di suprematismo, di odio cieco ed esasperato si oppone la bellezza della creazione musicale.
Fables of Faubus
Nel 1957, una scuola di Little Rock, in Arkansas, rifiuta l’ingresso a nove bambini neri. La Corte Suprema intima di ammetterli. Il governatore dell’Arkansas, Orval E. Faubus, schiera la polizia e blocca le lezioni per un intero anno. Charles Mingus, bassista eclettico, dalla personalità forte e un’acuta sensibilità, sempre attento alla salvaguardia dei diritti civili, scrive un pezzo che letteralmente ridicolizza Faubus. Il brano si intitola Fables of Faubus ed è corredato da un testo volto a colpire il governatore laddove duole di più: nella sua immagine. Egli è dipinto come un inetto. Il pezzo è di vera avanguardia musicale, fondato su continui cambiamenti di ritmo, tra i call-and-response di Mingus e Richmond (batteria) e le urla degli altri musicisti (Eric Dolphy al sax e Ted Curson alla tromba) volte a rappresentare la rabbia degli afroamericani. Mingus sceglie la satira per dare voce alla protesta e all’indignazione, in un brano che fu inizialmente censurato e privato del testo.
Freedom Now Suite
Una rivoluzione sta sbocciando – quella rivoluzione americana rimasta incompiuta. Ovunque la dignità e il potenziale umano vengono negati, lì sbocciano gioventù e idealismo. Le masse nere stanno marciando alla ribalta della storia reclamando la loro libertà: ora!
We Insist! Freedom Now Suite (1960) di Max Roach è l’album più apertamente legato alla lotta per i diritti civili degli afroamericani. Si tratta di un vero e proprio capolavoro, nato dal connubio di alcuni tra i più grandi jazzisti del tempo: Coleman Hawkins al sax, Booker Little alla tromba, Micheal Olatunji alle percussioni, Abbey Lincoln alla voce e Max Roach alla batteria. Una via di mezzo tra preghiera e urlo di rabbia, l’album ripercorre la vicenda vergognosa della schiavitù e il suo ancora più vergognoso perpetuarsi (fino all’apartheid). Dal blues al free, dalle danze tribali ai cinguettii e le urla, il disco si fa manifesto di una cultura segregata, sottomessa, rinnegata, che, nella musica, ha trovato il più compiuto linguaggio espressivo.
La carica rivoluzionaria della musica
Dalla mescolanza, dal dolore indicibile di intere masse di uomini e donne, nasce una musica nuova, un grido di libertà, di giustizia, di pace e armonia. Il riscatto passa per le note, il ritmo, gli assoli, le sincopi e i silenzi del jazz, un genere nato nei campi di cotone dalla sofferenza della schiavitù. Il jazz, oggi spacciato per musica colta e intellettuale, conserva una carica rivoluzionaria unica. Quella carica che appartiene ad ogni espressione artistica nata dall’onestà, dal bisogno. Il jazz nasce dal bisogno di rifugiarsi in una dimensione umana quando ogni segno di umanità sembra assente.
La musica infine, l’unificatrice – niente di più spirituale, niente di più sensuale, una divinità, eppure completamente umana – che avanza, prevale, occupa il posto più alto; capace di dare, in certe contingenze e campi, ciò che null’altro saprebbe dare.
(Walt Whitman)