Mario Praz così parlava del romanzo più famoso di Charlotte Brontë: Jane Eyre, il suo capolavoro, destò un certo scalpore a suo tempo perché l’eroina nei momenti di crisi mostra un coraggio che urtava contro le idee vittoriane di delicatezza; ma le appassionate eroine della Brontë non sono mai schiave della passione, anzi son pronte a sacrificare all’onore e al dovere lo stesso amore. Ove tuttavia la Brontë, in parte per soddisfare le esigenze del pubblico, abbandona il terreno dell’osservazione e si affida alla fantasia, dà nel melodrammatico e nel frenetico in modo che risente della tradizione del romanzo « nero »; inoltre il suo stile è talora contorto e gravato da astrattezza, e di rado riesce a dar l’impressione della parlata naturale.
Il critico, nella sua Storia della letteratura inglese, coglie con la sua sagacia l’inferiorità di Charlotte rispetto ad Emily ma comprende la sua importanza a livello storico. Chesterton fu più esplicito ancora nel far capire che solo Charlotte sarebbe entrata nella tradizione vittoriana: il suo libro esponeva cose più strettamente legate all’esperienza del tempo, alle istanze del gentil sesso a livello sociale.
Molte sono state le trasposizioni al cinema di Jane Eyre ma una in particolare coglie l’attenzione per la bravura del regista, il tocco raffinato, denso, conciso per intensità. La versione di Cary Fukunaga, futuro direttore della prima stagione di True Detective, ha uno stile semplice, senza fronzoli, supportato da Moira Buffini alla sceneggiatura.
Il regista sceglie per dare corpo ai suoi protagonisti l’australiana Mia Wasikowska e l’irlandese Michael Fassbender: l’alchimia c’è eccome, il trasporto sulla scena è sentito: questo contribuisce allo slancio delle loro scene, al respiro interno delle presenze. Aveva ragione a dire che la Wasikowska ha nei suoi occhi un grande senso d’osservazione ed una mancanza di teatralità che la rende energica, fresca, genuina.
Attorno ai due attori principali spicca la presenza di Sally Hawkins nel ruolo della zia, attrice perlopiù comica ma nata per il dramma e Judi Dench nel ruolo di Mrs. Fairfax: ruolo piccolo ma in cui lei fa sempre la sua figura.
Il gotico è dato più dalla luce che dalle ambientazioni in sé con un tocco essenziale, senza adipe, giocato secondo un grande controllo che non permette scivolate stilistiche. Si va avanti a flashback, a movimenti di macchina a mano o carrellate semplici, primi piani efficaci: Fukunaga sa come far sentire il progredire dei rapporti e la loro trasformazione con calibrate giustapposizioni.
Pure la musica di Dario Marianelli, già collaboratore di Joe Wright, s’accorda alla sua misura e al suo equilibrio. Per i fan del romanzo questo film sarà di sicuro da gustare: l’asciuttezza dell’approccio lo rende prezioso e terso, diretto, elegante laddove molti altri si sarebbero persi a rovinare il soggetto con totale mancanza di decoro.
Non bisogna essere per forza romantici per narrare una storia romantica. Non esserlo parlando d’amore, a cose vedute, produce un effetto assai più forte.
Antonio Canzoniere