Il 3 ottobre del 2018 Jamal Khashoggi, giornalista saudita del Washington Post e dissidente, entra nel consolato saudita di Instanbul per ottenere dei documenti matrimoniali. Ad attenderlo all’esterno, la fidanzata Hatice Cengiz
Un’attesa sempre più lunga. Un ingresso privo di ritorno. Un gruppo di sicari provenienti dall’Arabia Saudita, rapiscono, torturano e uccidono brutalmente Jamal Kashoggi.
Il presunto coinvolgimento del regime saudita nel compiere l’atrocità e in particolare, l’esistenza di un ordine diretto dal leader di fatto Mohammed bin Salman, sono fattori di un equazione pericolosa.
Incidono fortemente su molteplici interessi geopolitici.
Il principe ereditario Mohammed bin Salman, ha sempre negato ogni responsabilità diretta. Sono però ben noti i suoi metodi estremamente autoritari di governo. Inoltre, la denuncia civile presentata da Cengiz presso il tribunale distrettuale federale di Washington DC, sostiene precisamente la cospirazione e premeditazione del principe e di altri funzionari sauditi.
La stessa tesi è confermata nel concreto dal rapporto dell’intelligence USA del 2018, la cui versione integrale è stata resa pubblica dal governo americano solo a fine febbraio. L’immediata pubblicazione del rapporto nella sua interezza, fu osteggiata dall’allora presidente Donald Trump, il quale ne aveva smentito la veridicità per preservare lo status dell’Arabia saudita di alleato fondamentale per gli Stati Uniti.
Il rapporto, redatto dalla CIA, accusa MBS (Mohammed bin Salman) di essere stato mandante dell’omicidio.
L’omicidio di Jamal Kashoggi e la presidenza Biden
“I valori umani devono essere superiori, non è stato ucciso solo Jamal Kashoggi, è stata uccisa l’umanità… è una sofferenza che appartiene a noi tutti” afferma decisa la voce di Cengiz, eppure nessuna scelta governativa altrettanto netta è stata compiuta a favore della giustizia. La presidenza Biden non ha modificato la priorità di preservazione dei rapporti strategici con il paese esportatore di petrolio.
Integrità e affari, un immorale dilemma, eterno e trasversale.
John Bates, giudice del tribunale distrettuale ha posto un chiaro interrogativo al presidente statunitense: se esso intenda o meno garantire l’immunità al principe saudita, status che solitamente si riconosce a capi di stato e che porrebbe MBS in un ruolo non suo. Sembra allora scomparire la fermezza con la quale Biden nel 2019 si pronunciò in merito agli avvenimenti, affermandosi pronto a condannare ogni comportamento lesivo dei diritti umani dall’arabia saudita.
Si dissolve in una sorta di percorso di riabilitazione di MBS che è emblema della inderogabile salvaguardia dei benefici economici. Di fronte a tutto.
La promessa di un giusto processo perde solidità, scende nel gradino delle priorità per finire seppellita. Dalla pandemia, dalla guerra in Ucraina, dal midterm a novembre, dalla centralità dell’Opec… Il principe resta un alleato indispensabile per Washington.
La prossima settimana Biden sarà in Medio Oriente per “avviare un nuovo e più promettente capitolo dell’impegno statunitense nella regione”, con l’obiettivo di rafforzare “una partnership strategica basata su interessi e responsabilità reciproci, nel rispetto dei valori fondamentali americani”.
Un inchino che è resa. Il mondo occidentale con la sua retorica colma di valori inderogabili, si piega facilmente, come di consuetudine, dinnanzi all’essenzialità degli interessi economici. Curvatosi, discute ancora di correttezza e rettitudine ma prosegue, con il capo rivolto al basso, nell’ignorare e quindi autorizzare, la continua violazione dei diritti umani.
«La legittimazione che Mbs ottiene con visite in vari Paesi non cambia il fatto che sia un assassino» afferma ancora Cengiz, la cui vita è stata distrutta in un attimo.
Ma “in nome degli affari” qualsiasi mano può essere stretta, anche se sporca di sangue.
Giorgia Zazzeroni