La globalizzazione è morta, lunga vita al multipolarismo. Il discorso di Jake Sullivan e la riscoperta dell’Altro

Il 27 aprile, alla Casa Bianca, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale americana Jake Sullivan rivolge alla stampa un discorso storico. Washington riconosce che la globalizzazione non fa più gli interessi del Paese, e che è il momento di inaugurare un nuovo corso. Nasce ufficialmente un mondo nuovo, e multipolare.

Lo scontro con l’Altro, motivo e ragione dei mondi nuovi

Il 2 settembre 1945 la USS Missouri è ancorata nella baia di Tokyo, in Giappone. Nonostante siano le 08:00 del mattino, il ponte è ricoperto di uomini febbricitanti. Ovunque è bianco e kaki. Sono le divise dei soldati e dei marinai statunitensi che occupano ogni angolo della corazzata. Tutti gli occhi sono puntati su un uomo immobile.

È alto, più della media, e svetta tra i suoi collaboratori. Il volto dopo mesi di campagna è abbronzato e nonostante i 65 anni la figura si mostra atletica. Dall’inizio del conflitto, l’immagine cucitagli addosso dalla propaganda l’ha ormai reso un tutt’uno con i suoi occhiali da sole, ma quella mattina non li indossa. L’evento è troppo importante per cedere spazio alla vanita di cui, pare, il Generale Douglas MacArthur, comandante in capo delle forze alleate nel Pacifico, soffrisse molto. L’uomo che aveva ideato quella strategia del “salto della rana” che aveva permesso alle forze armate americane di prendere in completo contropiede l’espansionismo giapponese negli arcipelaghi dell’indo-pacifico, era ora in piedi su uno degli ultimi gioielli del complesso militare industriale statunitense.

Di fronte a lui, un tavolo, e, dall’altro lato, un piccolo drappello di uomini, gli unici su tutta la nave a non mostrare soddisfazione. Ma l’assenza di sorrisi non è l’unica differenza del gruppetto, rispetto a quella marea di ventenni che negli ultimi anni hanno rischiato ogni giorno la vita in mezzo all’oceano o su isole sperdute a migliaia di chilometri da casa. Il gruppetto è percepito come Altro, un altro non solo spaziale, ma temporale. Alcuni hanno stivali da cavallerizzo, lucidi come specchi, che sembrano usciti da un romanzo. Portano spade, ed hanno giurato con la vita fedeltà ad un uomo che viene chiamato dio. Probabilmente, nessuno di loro ha mai indossato occhiali da sole.

resa giappone-fine globalizzaZIONE

Da questo quadro passato si stacca un uomo. Non è in divisa, ma la percezione è sempre quella di un mondo vecchio. Un mondo che nel giro di pochi minuti esalerà il suo ultimo respiro. Il Ministro degli Esteri del governo provvisorio giapponese, Mamoru Shigemitsu, si presenta alla firma della resa in abito da cerimonia. Cappello a cilindro, redingote nera a coda, scarpe di vernice. È una strana scena, questo piccolo uomo, vestito come un lord europeo di inizio secolo, che zoppica (aveva perso una gamba a causa dell’attentato di un nazionalista coreano nel ‘32 ed usava una protesi e un bastone) verso un tavolo su cui un documento aspetta il suo nome per mettere fine a quella che si è già iniziata a chiamare seconda guerra mondiale.

23 minuti dopo l’inizio della cerimonia di firma, la guerra è conclusa. Guardando lo scafo della delegazione giapponese tornare verso la costa, qualcuno sulla USS Missouri inizia a chiedersi se una guerra come quella appena terminata potrà esserci ancora. Anche dopo le nuove armi con cui è stato costretto alla resa l’impero nipponico. A pensarlo sono i più anziani, però. I ventenni vestiti di bianco e kaki pensano che stanno per tornare a casa, in un mondo che ha appena iniziato un nuovo capitolo. Un mondo nuovo dove gli Stati Uniti non permetteranno più a tragedie del genere di avvenire.

La speranza dell’ultima divisione globale

Per i 45 anni successivi, il mondo visse uno stato di tensione che non trovò mai un reale sfogo, se non limitate e periferiche fiammate. La contrapposizione del blocco sovietico e di quello americano, tenuto in costante allerta da quelle, ormai non più nuove, armi che Shigemitsu e MacArthur avevano visto usare per fare terra bruciata di due città, penetrò nelle viscere del globo imponendo a tutti, o quasi (sono diversi i nomi illustri tra i non allineati), di prendere una posizione decisa dentro uno dei due campi.

I due consorzi umani che vissero e crebbero durante la guerra fredda si percepivano avvicendevolmente come Altro. Un Altro tanto diverso, come diverso poteva sembrare ad un marines del Kentucky un generale giapponese in alta uniforme. La distinzione di questi due mondi, trasversale a tutto lo spettro dell’esistenza umana – dal materiale allo spirituale – esisteva cibandosi di una separazione che non ammetteva, se non rarissime, eccezioni.

Nel campo economico ciò si tradusse nella cesura di una grande parte della popolazione umana da qualsiasi tipo di relazione commerciale con l’altra. L’esempio più plastico di tale stato delle cose è Cuba, geograficamente nel giardino di casa dell’occidente, eppure orgogliosamente posizionata al fianco di Mosca. Insensibile corollario: decenni di embargo ed un’economia disastrata per l’isola caraibica.

Il settore industriale, le aziende, i mercati (non solo quelli statali del Patto di Varsavia) erano consapevoli entro quali limiti poter giocare. Raramente si verificarono invasioni di campo al di là del limes. Invasioni di campo che avrebbero potuto indisporre non solo le capitali nemiche, ma anche la propria stessa “squadra”. Fino alla fine degli anni ’80, in poche parole, il mercato non poté permettersi di giocare da battitore libero. Era la geopolitica a decidere con chi, e sulla base di quali valori, fosse possibile relazionarsi. Geopolitica ed economia, per tutta la guerra fredda, corsero sullo stesso binario. La prima in leggero anticipo, per aprire la strada alla seconda.

La fine della guerra fredda e la nascita della globalizzazione

Le cose cambiano all’improvviso negli anni ’90. Il crollo sovietico lascia immensi spazi vuoti da riempire, e non c’è tempo da perdere, o si potrebbe rischiare di arrivare ultimi. Nel 1989, pochi mesi prima che al Cremlino si ammainasse per l’ultima volta la bandiera con la falce e il martello, un’economista americano, John Williamson, conia un nuovo termine, anticipatore dei decenni che seguiranno. È il Washington Consensus, e diventa il mantra del nuovo mondo non più multipolare. Ora che gli Stati Uniti non hanno più avversari di fronte a sé, si inizia a credere davvero al sogno di un mondo di pace che riempiva le speranze di quei marinai di ritorno dal Pacifico nel 1945.





Passato il terrore per l’atomica, le correnti Neocon americane scoprono che questa utopia non ha bisogno delle armi per essere inseguita. Ciò che serve è un neo liberismo che non tenga conto di confini o culture con diversi valori, ma solo delle possibilità che un mercato globale può offrire. L’idea è che relazioni commerciali diversificate e con profonde radici che si intersecano in ogni angolo del pianeta, potranno cancellare gli ostacoli che culture e visioni dell’esistenza diversa pongono al mantenimento della tranquillità dei rapporti. Che bisogno dovrebbe esserci per una nazione straniera, è l’idea di Washington, di ergersi contro la prima potenza del mondo, se proprio le aziende e gli investimenti di quella potenza garantiscono un benessere diffuso? Per quale motivo investire in cannoni, quando il mercato sostenuto dagli Stati Uniti garantisce un continuo e abbondante approvvigionamento di burro?

Nasce la globalizzazione, ma nell’ultimo decennio del secondo millennio è ancora un neonato fragile che necessita di un ambiente sicuro in cui svilupparsi. Tale ambiente è garantito dal Washington Consensus. Quando Williamson partorisce il nuovo vocabolo, ha in mente un pacchetto di 10 direttive economiche che i Paesi in via di sviluppo devono accettare per entrare nel “club” dei partner commerciali americani. In pratica, è la guida per allineare le dottrine economiche straniere con quella di Washington. Tra le direttive previste: privatizzazione delle aziende statali, limitazione dei “sussidi indiscriminati”, abolizione delle regole che limitano la competizione delle aziende straniere nei rispettivi sistemi nazionali. Nel giro di poco, il Washington Consensus diventa il missionario atto a convertire al sistema neo liberista statunitense quelle aree del mondo ancora sorde al “verbo”.

Il mondo si sveglia neo liberista, e per tutti gli anni novanta è entusiasta di credersi finalmente uscito dalla storia. Basta conflitti, solo il benessere dello sviluppo economico, vero legante dell’umanità. Ogni tanto qualche notizia al telegiornale ricorda che esistono ancora sacche di violenza dove la gente fa la guerra per ragioni che non hanno niente a che vedere con l’economia. Si sente nominare il Ruanda, o il Kosovo, ma sono nomi lontani nella percezione (meno nella geografia), stivali da cavallerizzo pochi minuti prima della firma di resa. Consapevoli che stanno per essere messi da parte per sempre.

All’inizio del 21esimo secolo, l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 sembra risvegliare il mondo da un grande sogno. Ci si accorge in maniera plateale che esiste qualcuno a cui dell’economia interessa poco. Qualcuno che la disponibilità a ricorrere alla violenza nel nome di valori Altri non l’ha accantonata. Tuttavia è un risveglio che dura poco. Con il passare dei mesi, e poi degli anni, anche la guerra al terrore perde il suo appeal e viene derubricata a semplice crisi periferica. Con un po’ di fortuna, l’ultima. Non si smette ancora, per lo meno in occidente, di credere alla grande promessa sulla fine della storia e l’inizio di un’età dell’oro in cui sia l’economia a garantire i pacifici rapporti tra i popoli.

Conforta sapere che ad attaccare New York non sia stato un Paese, ma una piccola comunità. Uomini evidentemente privi di istruzione sulle possibilità che la via della globalizzazione offre. Uno Stato organizzato, certamente, non sarebbe caduto così in fallo, senza capire quanto andare contro “il sistema” significasse andare contro i propri interessi. La geopolitica rimane una vecchia cattedrale, molto costosa da mantenere, affascinante da guardare, sempre più vuota.

La globalizzazione annega nelle crisi

Passa qualche anno. La Cina entra nella World Trade Organization (WTO), gettando sul tavolo del mercato globale le sue immense risorse demografiche e produttive: l’equilibrio si infrange. Arriva la crisi del 2008, e le promesse del neo liberismo scricchiolano. Trump vince le elezioni, ed il mondo scopre che una buona fetta di americani è più interessata a mantenere gli investimenti delle aziende nazionali sul proprio territorio, piuttosto che disperderli chissà dove in nome del sostegno alla globalizzazione. Viene poi la pandemia di Covid 19, ed ogni Paese è costretto a chiudersi in sé stesso. In molti iniziano a mettere in dubbio la dipendenza dai rapporti con l’Altro, che rende gli anni dell’emergenza sanitaria difficili da gestire per chi è abituato ad acquistare da oltre confine i beni necessari alla propria sopravvivenza.

Il 24 febbraio 2022, infine, i cingoli dei carri armati russi tracciano i campi e le strade ucraine. Nei mesi successivi aumentano le esercitazioni navali cinesi nello stretto di Taiwan. Crolla definitivamente la teorica neo liberista. Nazioni sovrane – che come tutte le nazioni sovrane, nonostante i regimi autoritari ed il sostegno della propaganda che le guida, vivono del consenso della propria popolazione (e si parla di popolazioni che vanno dalle centinaia di milioni ai miliardi di persone) – scelgono scientificamente la strada dell’anti economicismo. Scelgono di incedere su sentieri che svuotano le casse dello Stato, bruciano migliaia di vite e fanno terra bruciata delle relazioni internazionali. Per seguire un’idea di sé traghettata dalla propria storia, o per aumentare la propria influenza nei territori limitrofi.

Sono motivazioni che il neo liberismo e la grammatica della globalizzazione non possono spiegare, perché non sono motivazioni economiche. Ma la geopolitica sì, perché sono queste le motivazioni che hanno generato gran parte dei movimenti che hanno definito la storia umana. Il loro rientro sulla scena mondiale, quindi, conferma che l’età dell’oro è ancora lontana. L’uomo continuerà a scontrarsi con un Altro ancora per un po’.

La cosa non è sfuggita a Washington, che dell’età dell’oro si è fatto messia per più di vent’anni. Nonostante si sia cercato di rimandare la certificazione di decesso della perfetta globalizzazione (che sembrava così vicina all’inizio del secolo), alla fine, il 27 aprile di quest’anno, si è dovuto ammettere ufficialmente quanto ormai era chiaro da mesi. L’ha fatto il Consigliere per la Sicurezza Nazionale americano dell’amministrazione Biden, in un discorso tenuto alla stampa presso la Casa Bianca. Un discorso dal sapore di un elogio funebre, e allo stesso tempo le caratteristiche di una guida per il futuro. Riassumendo in poche parole: la globalizzazione è morta, lunga vita al multipolarismo (e occhi aperti all’Altro).

Il Discorso di Jake Sullivan: la globalizzazione è morta, lunga vita al multipolarismo

Il ritorno ad un mondo diviso in due blocchi è chiaro da alcuni anni. Il processo di definizione dei rispettivi confini è tutt’ora in corso, ma sembra essere ormai in dirittura d’arrivo. Più indefinito il peso che i vari soggetti, specialmente nel campo non occidentale, avranno. Tuttavia, la gerarchia appare in maniera sempre più precisa. L’Altro sembrerebbe oggi essere sostenuto dall’asse euroasiatico di Russia e Cina, che, è bene sottolineare, si presenta non come un’alleanza, ma come una comunione (probabilmente temporanea) di interessi. Altri i protagonisti del fronte, alcuni più certi di altri: l’Iran, la Bielorussia, diverse Repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale, il Venezuela. Sotto osservazione il Brasile, oscillante tra Pechino e Washington a seconda delle tornate elettorali. Ci sono poi gli alleati occidentali verso cui il timore sulla lealtà nel prossimo futuro è in aumento: la Turchia, l’Arabia Saudita, in un certo senso l’India.

Il 27 aprile, durante l’incontro settimanale con la stampa, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale dell’amministrazione Biden, Jake Sullivan, esprime un’idea chiara. Un’idea che gli apparati americani stanno definendo da anni, e che adesso sono pronti a condividere. Il Washington Consensus è invecchiato, e non è più funzionale a sostenere gli interessi del Paese. Gli Stati Uniti, ed i loro alleati, non possono più fingere di vivere negli anni ’90, ed è giunto il momento di adeguare la propria traiettoria al mondo multipolare. È giunto il momento, come era stato durante la guerra fredda, che la geopolitica torni a guidare l’economia, e che il dossier della sicurezza globale torni ad essere integrato a quello dell’economia domestica. Il nuovo Washington Consensus, continua Sullivan, dovrà essere strutturato per rivolgersi a quattro sfide.

Fermare la moria dell’industria nazionale americana: i decenni di globalizzazione hanno visto gli Stati Uniti vivere sempre di più dell’import dall’estero. Ciò aveva le sue ragioni, rendere i Paesi stranieri dipendenti dal mercato e dagli investimenti americani. Il corollario, tuttavia, a tale politica, è l’impoverimento sociale degli states. Che traghetta Sullivan alla seconda sfida del nuovo Washington Consensus.

La lotta alle disuguaglianze sul territorio nazionale. La società americana è attraversata da faglie di malessere come non se ne erano mai viste prima. Aumenta la divisione tra i cittadini, sempre meno capaci di riconoscere una sola idea di Stati Uniti in cui credere, perché piagati da bisogni crescentemente più diversi. L’incompatibilità sempre più marcata tra diverse espressioni di americani sta facendo scivolare il Paese oltre i limiti delle possibilità democratiche.

C’è poi la questione climatica, con l’incedere di crisi stagionali di anno in anno sempre più numerose. Crisi che non mettono in pericolo soltanto la sicurezza economica delle famiglie, ma anche l’industria alimentare americana, che rischia di non essere in grado di sopperire alle basilari necessità della popolazione.

Infine, la sfida forse più importante e, in un certo senso, la più umiliante, per un Paese che ha sognato di poter dare vita alla nuova età dell’oro globale. È necessario, considera il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, riconoscere il fallimento della globalizzazione. L’integrazione economica si è dimostrata incapace “ad impedire alla Cina di espandere le proprie ambizioni militari o a fermare la Russia dall’invadere un proprio vicino”, dice Sullivan.

Il nuovo corso non inizierà all’improvviso, rapporti diplomatici ed economici con l’Altro restano ancora in piedi. Tuttavia, assicura Sullivan, il mercato americano dovrà iniziare a selezionare i propri partner con altri filtri, oltre a quelli economici sufficienti fino ad oggi. Viene detto durante il discorso del 27 aprile: “È necessario assicurarsi che in futuro le catene dei nostri approvvigionamenti siano resilienti, sicure, e che riflettano i nostri valori”. Tempi duri per l’export dell’Altro.

Viene citato come esempio il tema dei pannelli solari, attorno al quale si intrecciano diverse delle sfide che andranno ad indicare la direzione del nuovo Washington Consensus nel mondo post globalizzazione. Washington, infatti, intende con il nuovo corso promuovere l’industria nazionale del settore, ed aumentarne a dismisura le capacità, per motivazioni che trovano giustificazioni trasversali alle varie sfide. La questione ambientale, innanzitutto, con gli Stati Uniti che intendono accelerare la green economy ed lo sviluppo di energia pulita nazionale. Ovviamente lo sviluppo di tale settore andrebbe a favorire l’industria nazionale ed il mercato del lavoro interno, sperato motivo di sfogo alle divisioni sociali.

Soprattutto, far rientrare in patria un’industria strategica, il cui valore è quindi anche geopolitico, oltre che economico, si inserisce nel solco della ricerca di catene di approvvigionamenti che “riflettano i nostri valori”. Ad oggi infatti, circa il 98% dei lingotti e dei wafer di silicio (necessari alla costruzione di pannelli solari, ma non solo) prodotti nel mondo, vengono dalla Cina. Da una regione particolare della Cina, lo Xinjiang, dove da anni è in corso una draconiana politica di assimilazione nei confronti della locale popolazione Uiguri.

Fino ad oggi l’economia neo liberista americana, semi indiscussa stella polare di Washington e guida della globalizzazione, ha accettato tale stato delle cose. Ora, con un nuovo Consensus al timone, le cose potrebbero cambiare. Nei mesi e negli anni successivi potrebbe vedersi un ritiro sempre maggiore di aziende e investimenti occidentali dai territori dell’Altro. In Russia a tale processo si è dato il nome di “sanzioni” per inquadrarlo storicamente nel momento in corso. Ma è chiaro che anche diversi anni dopo la fine della guerra, qualsiasi sarà il termine, i contatti tra “noi e loro” saranno freddi, e oltremodo limitati. La considerazione che abbiamo oggi di Mosca è anticipatrice di quella che avremo presto per altri soggetti del campo Altro. Venendone ovviamente ricambiati.

Ci si muove quindi verso una dialettica da guerra fredda, nella quale le invasioni di campo dell’economia non saranno più accettate e dove si smetterà di interrogarsi sul modo in cui viene visto il mondo dall’altra parte del muro. Due umanità, con due diversi scrigni di valori (declinati, come sempre accade, secondo la grammatica delle geografie locali). Ancora una volta, un mondo nuovo, pronto ad uccidere la madre durante il parto. Un mondo che per più di dieci anni si è cercato di abortire. Alla fine tuttavia, un serioso Sullivan non ha potuto che confermare: “la globalizzazione è morta, lunga vita al multipolarismo”.

Riccardo Longhi

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