J. F. Kennedy ha inventato il politico contemporaneo.
Fino a qualche anno fa si sentiva spesso l’espressione: «dov’eri l’undici settembre?» L’attacco alle Twin Towers fu un evento talmente inaspettato e terrificante che segnò nel profondo l’inconscio di un intero Paese e del resto del mondo. «Dov’eri l’undici settembre?» Valeva anche per chi non fosse stato a New York in quel giorno. La diretta del disastro a reti unificate estrometteva le giustificazioni per assenza. Ecco, quella frase, l’espressione terribile che unisce quotidianità ed evento storico, quella che, in verità, è la trasposizione letterale di una coincidenza reale, è un calco. Anni addietro, per molto tempo, la domanda è stata: «dove eri quando hanno ucciso Kennedy?»
John Fitzgerald Kennedy venne assassinato il 22 novembre 1963, a Dallas. Nel video si vede chiaramente la macchina nera decapottabile accelerare all’improvviso mentre il corpo dell’uomo giace riverso su un lato accudito dalla moglie Jacqueline. Ci sono poche persone ai lati della strada ad osservare il corteo presidenziale. Dallas non è una piazza facile. Le città del sud sono restie al movimento per i diritti degli afroamericani. C’è qualcosa che resiste, i privilegi dell’uomo bianco cristiano sono radicati con forza nella storia di un paese sconfitto. Ed è proprio su quell’auto che si manifesta impetuoso il marchio del tempo, violento, sanguinoso.
John Kennedy muore alle 13.00, al Parkland Memorial Hospital, sotto le mani dei medici. Un proiettile lo ha colpito alla testa perforando il cervello. L’annuncio della morte viene dato circa una mezz’ora dopo dal segretario della Casa Bianca Malcolm Kilduff. Lyndon B. Johnson, il vicepresidente, pronunciando il giuramento sull’Air Force One, diventerà il 36º presidente degli Stati Uniti intorno alle 18.00. La televisione statunitense manda in onda per quattro giorni video, immagini, speciali, approfondimenti, riguardanti la vicenda. Una diretta non stop che affronta un unico argomento: il giovane presidente morto ammazzato. Qualcosa del genere avverrà solo nel 2001, l’undici settembre, il giorno del terrore e del crollo delle Twin Towers. Proprio questo dovrebbe spiegare l’analogia riportata in principio. Non solo una frase, ma una circostanza terribile che mette in comunione un paese enorme per giorni davanti a un televisore. J. F. Kennedy aveva la stessa capacità mediatica di un centro economico mondiale. Forse proprio per questo motivo il giovane, cattolico, sessualmente molto attivo, presidente degli Stati Uniti d’America e la sua grande, ricca e mediaticamente produttiva famiglia, hanno cambiato la politica contemporanea.
J. F. Kennedy è il secondogenito dei i nove figli di Joseph Patrick “Joe” Kennedy Sr. e Rose Fitzgerald. La famiglia di origini irlandesi arriva negli Stati Uniti nel 1840. I Kennedy appoggiano da sempre il Partito Democratico americano e Joe Kennedy sostiene Franklin Delano Roosvelt durante la prima e la seconda campagna elettorale. Joe ha costruito la sua fortuna attraverso il più grande e pervasivo mezzo di comunicazione dell’epoca: la radio. Questo rapporto diretto e sinergico con i media a livello familiare è, forse, la dinamica che più incide sulla personalità pubblica e istituzionale del futuro presidente.
Nell’epocale dibattito del 26 settembre 1960 tra J. F. Kennedy e Richard Nixon è proprio il fattore mediatico a determinare le sorti dell’incontro. Sono più di 70 milioni gli americani sintonizzati sulla trasmissione e Kennedy ha un abito e un abbronzatura che bucano lo schermo. Per molti commentatori i due candidati alla Casa Bianca erano pressoché sullo stesso livello retorico, tuttavia questo particolare evento televisivo segnò il margine che costituiva la differenza tra i due politici. Mentre Kennedy appariva, appunto, a suo agio tra le cineprese, Nixon portava un abito che non esaltava nel colore e nel taglio la sua presenza e, cosa ancora più impopolare, sfoggiava una rasatura del viso imperfetta.
- J. F. Kennedy batté Nixon alle elezioni presidenziali di circa 120.000 preferenze, quasi un’inezia. Sono celebri i sondaggi che testimoniano che gli americani che avevano seguito il dibattito alla televisione riferivano che Kennedy si era dimostrato migliore, mentre coloro che avevano seguito tramite radio riportavano una superiorità da parte di Nixon. Qui, ancora una volta, si manifesta il marchio del tempo. La tecnologia cambia le carte in tavola, vince non solo chi ha contenuti, ma anche chi sa usare la propria immagine. Non si tratta più di foto sui giornali o discorsi diffusi dagli altoparlanti, ma di una miscela che unisce i due mezzi in uno solo. E J. F. Kennedy è l’uomo di questo mezzo.
Non basta, J. F. Kennedy è il primo presidente ad offrire al popolo americano uno spaccato della sua vita privata. Le passeggiate con la moglie Jacqueline, le corse dei figli sul prato della Casa Bianca, o, ancora, i ritratti della famiglia nei momenti di vacanza. Per non parlare delle indiscrezioni, resesi sempre più azzardate dopo la morte di John, che lo dipingevano come un instancabile donnaiolo e festaiolo. Alla base del divismo di J. F. Kennedy e, per estensione, dell’intera famiglia, c’era certamente questo principio di inclusione che rendeva ogni spettatore un potenziale conoscente, un concittadino (Ich bin ein Berliner) in un certo senso, un amico.
Quando i messaggi politici arrivano attraverso un tweet, quando attendiamo una diretta facebook per apprendere le ultime indicazioni in merito ai decreti governativi, dovremmo ricordare che il processo ha avuto inizio qui. C’è un un tema che però abbiamo tralasciato di indagare e riguarda la distanza. In questo periodo pandemico parlarne è forse meno ostico o spiacevole. L’attendibilità, la serietà, e, spesso, la buona fede di chi ci parla risiedono anche nella distanza. Bisogna guardare le cose dalla giusta distanza per capirle appieno. A un amico troppo spesso si perdona tutto. Bisogna ascoltare con il giusto distacco per non rischiare di diventare semplici tifosi e non più uomini critici.
Paolo Onnis