Che lavoro fai? Il musicista. Sì, ma concretamente?
Quante volte i musicisti sono stati sottoposti a imbarazzanti domande come questa!
Eppure il paese che ha dato i natali all’Opera non avrebbe mai dovuto imporre una simile tipologia di pensiero, sia per quanto riguarda la musica che per l’arte in generale.
Eppure questa è solo una delle tante affermazioni con le quali un musicista, non professionista o non famoso, deve convivere.
L’affermazione di un modello di pensiero sovra strutturato secondo i canoni della globalizzazione consumistica continua a non lasciar spazio all’autodeterminazione professionale, né alla volontà di mettersi in gioco.
Scoprire e maturare la propria vocazione diventa un percorso auto-imposto dagli schemi sociali; un po’ come la musica d’attesa all’interno dei non-luoghi, anche la vita del musicista è lasciata alla libera scelta dell’individuo, purché non distragga il tessuto connettivo che lo sostiene.
In questo sistema di azione e reazione, sono tanti i musicisti che, dopo la propria personale gavetta, tra scantinati, sale prove e anni di studio, vedranno sempre messi in gioco i diritti derivanti dai tanti sacrifici fatti.
Per diritti s’intende la possibilità di farsi conoscere, ascoltare ed essere garantiti economicamente per questo.
Basta aprire un qualsiasi forum di discussione sui vari social, per trovare centinaia di pensieri e commenti relativi a come molto spesso la categoria dei musicisti venga costantemente offesa nella propria sensibilità artistica e professionale, da parte degli stessi operatori del settore: gestori di locali, impresari all’acqua di rose e discografici a tempo determinato.
Qualsiasi percorso performativo viene sottoposto alla disfatta delle aspettative di chi, considera il musicista come “l’ultima ruota del carro”.
Tale modello sembra essersi consolidato ampiamente al punto che anche l’industria musicale ha messo appunto lo stesso principio del locale che; “paga i visibilità”.
È di pochi giorni fa, a tal punto, la notizia che la Fremantle, società produttrice di format, sia alla ricerca di musicisti, per la serata finale di Italia’s Got Talent, prevista per il 22 marzo.
L’offerta è stata inviata a numerose scuole di musica e a professionisti, senza distinzione generazionale: trombe, tromboni, sax, organi e una sezione di quindici/venti archi. Una vera e propria orchestra, per accompagnare le esibizioni canore e i corpi di ballo del programma condotto da Ludovica Comello.
Fin qui tutto bene e, nonostante si parli di Talent Show e della loro funzione globalista e anti-musicale, resta una vetrina importante per molti musicisti.
Dov’è la fregatura? Direbbe qualcuno! Tutto Gratis.
Per un impegno così importante e delicato, la Fremantle non avrebbe predisposto alcun compenso ai musicisti.
La spiegazione (per cosi dire) della casa produttrice sarebbe quella di avere l’opportunità di esibirsi in un programma nazionale e quindi accedere a una prestigiosa vetrina per la propria carriera.
Quindi in buona sostanza, una grande organizzazione “concede” a musicisti, giovani e non, la visibilità in cambio di fatica. La medesima proposta fatta da un possibile gestore di un locale viene utilizzata da coloro che rappresentano (nostro malgrado) l’industria musicale italiana.
Non basta aver trasformato il mondo della musica in una sorta di melodrammatica corrida, piena di aspiranti e sognatori, modellati a uso e consumo del mercato, per poi essere buttati via una volta scaduti, per non fermare la catena di montaggio.
Non basta aver contribuito a sdoganare stereotipi confusi, che mescolano generi a caso senza una conoscenza della storia musicale contemporanea.
Non basta l’aver immolato al sacro fuoco del conformismo, qualunque possibile idea reale, che non sia veicolata dai social network.
Non basta che i dischi d’oro vengono consegnati a “non musicisti” per antonomasia, modellati per ottenere visualizzazioni.
Non si tratta più di lamentarsi, in piccole cerchie virtuali, di come questo paese abbia assassinato la musica col sorriso e la complicità di tanti operatori del settore, terrorizzati all’idea di non arrivare alla fine del mese, ma anche delle tante élites che persistono nel rifiutare qualunque confronto.
Un invito ai musicisti
La gravità del gesto di Fremantle non sta solo nel mettere in discussione il lavoro, la difficoltà e i sacrifici dell’essere musicisti e fare buona musica, ma nell’aver attuato una strategia dal basso; subdola e incoerente come la musica che cercano di veicolare.
L’invito ai musicisti, di qualunque età, rango sociale, formazione, consiste nel dare risposte chiare e, se necessario, netti rifiuti, magari utilizzando lo stesso atteggiamento di sufficienza che questi alti papaveri del mercato digitale hanno nei confronti della musica; anima universale e poliglotta di un mondo sempre più chiuso e mediocre, ispirato dai mediocri che lo governano, ma che non rispecchieranno mai l’universo delle competenze che secoli di evoluzione hanno donato all’umanità.
Ricordiamoci che nel nostro presente un Battisti, un Dalla, Bruce Springsteen, ma anche Charlie Parker, Stravinsky o Puccini non sarebbero esistiti.
Vi piacerebbe un mondo così?
Fausto Bisantis