Conosciamo tutti i crimini perpetrati dai nazisti, ma pochi di noi sanno dei massacri posti in essere dagli italiani nel corso del periodo del colonialismo in Etiopia ed in Libia, tra il 1935 ed il 1937.
Va innanzitutto considerato che, nell’occupazione dell’Etiopia, la popolazione indigena partiva con uno svantaggio non indifferente rispetto all’esercito italiano: molti etiopi non avevano mai visto né un’arma da fuoco né un carro armato; di conseguenza, i cinquecentomila soldati italiani, dotati di artiglieria pesante, ebbero gioco facile rispetto agli abissini, che tentavano di difendersi tirando pietre.
Fu così che, durante gli scontri a fuoco, per ogni italiano ucciso vi era una media di dieci vittime etiopi.
D’altro canto, gli italiani neppure si risparmiarono, avvantaggiandosi delle loro migliori munizioni per colpire anche con attacchi aerei.
Tutto questo, però, non era abbastanza per Mussolini: reputando ancora troppo lenta l’avanzata italiana, sostituì nel 1935 il generale Emilio De Bono con Pietro Badoglio nella direzione delle truppe italiane.
La mossa si rivelò vincente: lasciando dietro di sé ben ottantamila morti nelle fila dell’esercito etiope, il 5 maggio 1936 Badoglio conquistava Addis Abeba, mentre quattro giorni più tardi Mussolini proclamava la nascita dell’Impero, nominando Badoglio viceré.
Già allora, tuttavia, il deposto imperatore Hailé Selassié denunciò alla Società delle Nazioni che gli italiani avevano adoperato gas venefici; ciò in insanabile contrasto con i dettami del Protocollo di Ginevra per il regolamento pacifico delle controversie internazionali del 1925- che pure l’Italia aveva siglato.
Negli ultimi anni, alcuni studi hanno tristemente confermato questa denuncia: l’aviazione italiana, volando a bassa quota nel cielo etiope, aveva sparso nell’aria gas iprite, che fu adoperato sia contro i militari che contro i civili. Altre volte, l’iprite era adoperato all’interno di recipienti poi lanciati come bombe; altre ancora, veniva inserito all’interno delle granate.
Se è vero che fu Mussolini ad autorizzare l’utilizzo di questo insidioso mezzo (per tre volte, una delle quali per sedare delle ribellioni), nemmeno va sottaciuto che Badoglio aveva già iniziato autonomamente la gassificazione: si stima che sia stato responsabile di ben sessantacinque bombardamenti all’iprite.
L’iprite aveva l’effetto di bruciare e disintegrare i tessuti del corpo umano, penetrando attraverso gli abiti; la popolazione etiope subì inerme, tanto più che non si aveva neppure contezza di alcun metodo per curare i feriti.
Anche alla popolazione libica, sul Fronte Sud, toccò questo atroce massacro; per di più Rodolfo Graziani, che era a capo delle truppe di zona, ordinò di lanciare dagli aerei in volo i ribelli catturati.
Gli italiani non risparmiarono neppure la Croce Rossa: convinti che le notizie circa l’utilizzo dell’iprite fossero trapelate tramite questa, attaccarono per ben diciannove volte alcuni suoi ospedali da campo.
Ma l’episodio più noto è forse quello risalente al 19 febbraio 1937: in quella data nacque Vittorio Emanuele di Savoia e Graziani organizzò una cerimonia pubblica, invitando presso il palazzo reale (“ghebbì”) un gran numero di civili etiopi. In quell’occasione, Graziani distribuì due talleri d’oro a ciascuno dei poveri presenti (ciò seguendo un’usanza del precedente sovrano, tuttavia donando un tallero in più rispetto a lui).
Nella folla confluirono a palazzo però anche due intellettuali eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, i quali presero a lanciare sul palco delle bombe a mano, così uccidendo quattro italiani, due etiopi e ferendo una cinquantina di superstiti, tra cui lo stesso Graziani, che fu trasportato d’urgenza in ospedale.
Al fine di evitare la fuga degli attentatori, si chiusero tutte le uscite ed i militari italiani aprirono il fuoco.
Si sparò per circa tre ore, mentre la folla cercava di fuggire. Un testimone ricorda che, pochi istanti dopo l’inizio della controffensiva, il cortile del ghebbì raccoglieva già trecento cadaveri; quasi nessuno degli etiopi presenti si salvò.
Da quel momento in poi, iniziarono le rappresaglie degli italiani, che si protrassero per diversi giorni per le strade di Addis Abeba a danno della popolazione civile, colpendo indistintamente (come del resto era avvenuto già all’interno del palazzo reale) anche bambini, anziani, donne ed ammalati.
Il professor Harold Marcus, che ha studiato a lungo il massacro, raccontava:
Poco dopo l’incidente, il comando italiano ordinò la chiusura di tutti i negozi, ai cittadini di tornare a casa e sospese le comunicazioni postali e telegrafiche. In un’ora, la capitale fu isolata dal mondo e le strade erano vuote. Nel pomeriggio il partito fascista di Addis Abeba votò un pogrom contro la popolazione cittadina. Il massacro iniziò quella notte e continuò il giorno dopo. Gli etiopi furono uccisi indiscriminatamente, bruciati vivi nelle capanne o abbattuti dai fucili mentre cercavano di uscire. Gli autisti italiani rincorrevano le persone per investirle col camion o le legarono coi piedi al rimorchio trascinandole a morte. Donne vennero frustate e uomini evirati e bambini schiacciati sotto i piedi; gole vennero tagliate, alcuni vennero squartati e lasciati morire o appesi o bastonati a morte”.
La furia degli italiani (peraltro, non solo appartenenti ai corpi militari: anche numerosi civili ne presero parte) non risparmiò neppure le chiese, che venivano date alle fiamme.
Le violenze si protrassero per numerosi giorni oltre i tre immediatamente successivi all’attentato a palazzo (dopo il quale Mussolini telegrafava icastico: “Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi”). All’incirca settecento abitanti del luogo si rifugiarono nell’ambasciata inglese; quando uscirono, però, vennero fucilati.
Secondo le stime etiopi dell’epoca, il massacro fece trentamila vittime; la stampa straniera del tempo parla invece di un numero ricompreso tra tremila e seimila.
Gli attentatori, sulle cui teste pendevano taglie del valore di mille talleri, non vennero ritrovati. Graziani, per ritorsione, a fine febbraio ordinò la fucilazione di decine di notabili etiopi.
Non mancano, purtroppo, brutali testimonianze fotografiche dell’epoca, con soldati italiani che impugnano sorridenti teste di etiopi mozzate.
E poi, ancora, vi fu la deportazione, nello stesso anno, di circa quattrocento etiopi in Italia.
Alcune famiglie (donne e bambini compresi, per un totale- stando a fonti italiane, di 1.800 persone, ma oltre 7.000 secondo l’Etiopia), dopo un estenuante viaggio di due settimane (che non di rado, già di per sé, conduceva alla morte), venivano deportati in un vero e proprio campo di concentramento, a Dhanaane, sulla coste della Somalia.
Qui, secondo alcune testimonianze, circa la metà degli internati morirono a causa della scarsa alimentazione, delle malattie e dell’inquinamento dell’acqua; il direttore sanitario del campo avrebbe accelerato alcune morti con iniezioni a base di arsenico e di stricnina.
Graziani, frattanto, aveva invano richiesto a Mussolini (che non aveva acconsentito temendo di destare troppa attenzione sul piano internazionale) di deportare l’intera popolazione di Addis Abeba, radendone il centro storico al suolo; ad ogni modo continuò le stragi, al punto che venne in seguito soprannominato “il macellaio di Fezzan”.
Egli, infatti, dispose la fucilazione di tutti i cantastorie, gli stregoni e gli indovini locali, rei di aver annunciato la prossima fine della dominazione italiana.
Complessivamente, in questo periodo si parla di 1.877 uccisioni, ma molte ancora sembrano attribuirsi ad arbitrarie esecuzioni ad opera di altri militari.
Le uccisioni colpirono anche i monaci del monastero di Gulteniè Ghedem Micael, il 13 maggio del 1937, sospettati di aver collaborato in qualche modo all’attentato. Dopo sei giorni, anche 129 giovani diaconi, inizialmente risparmiati, vennero uccisi, per un totale, secondo le stime ufficiali, di 449 persone (ma recenti studi parlano di numeri molto più consistenti). I cadaveri furono gettati in un crepaccio, sul bordo del quale erano avvenute le esecuzioni.
Anche la chiesa copta venne distrutta– secondo alcuni in virtù di un complotto con gli inglesi ed alcuni fedeli, ma Graziani rivendicò con orgoglio l’accaduto, parlando a riguardo di una “tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia”.
Ma forse più di tutte le vittime trucidate spaventa la rimozione dalla memoria collettiva di questi atroci avvenimenti: nonostante nel 1948 l’Etiopia avesse accusato, con prove documentali, dinanzi alle Nazioni Unite l’Italia di sistematico terrorismo entro i suoi confini, le pressioni del nostro governo ne vanificarono gli sforzi: degli otto rinviati a processo, Badoglio non venne mai processato e Graziani fu processato unicamente circa il suo ruolo nell’ambito del regime fascista.
Nessuna pena, dunque, fu scontata da questi assassini; nessuno ha pagato per il sangue versato da tanti innocenti.
Lidia Fontanella