Nona settimana consecutiva di proteste in Israele, slogan, opposizione e bandiere al vento. Le proposte di riforma sul sistema giudiziario, ad opera del governo di estrema destra di Netanyahu, innescano un’accesa rivolta da parte di migliaia di manifestanti. Gli esperti affermano: “Lo stato di diritto è a rischio”.
Lo stato ebraico ha testimoniato un periodo di profonda crisi e instabilità politica esterna e interna, come non si vedeva da decenni. Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad attentati, raid, scontri, feriti e arresti. Per non parlare di una diplomazia ormai insufficiente a sanare i contrasti riguardanti la questione palestinese, ma non è tutto.
Le città di Israele scalpitano e s’infiammano guidate dall’ex primo ministro israeliano Yair Lapid, leader dell’opposizione e fondatore del partito Yesh Atid (“C’è speranza”), che dichiara apertamente
Salveremo il nostro Paese perché non siamo disposti a vivere in un Paese non democratico.
Mercoledì 1° marzo, i manifestanti hanno invaso strade, autostrade, luoghi di lavoro in uno sciopero generale di protesta contro l’esecutivo di Benjamin Netanyahu, definendolo una “giornata nazionale di interruzione” in difesa della democrazia e soprattutto per amore del loro paese.
Sabato 4 marzo, i manifestanti hanno persistito nel gridare il loro dissenso, più forti, più numerosi, sempre più determinati a difendere le fondamenta democratiche del paese. Erano in 160.000 solo a Tel Aviv.
In quell’intenso pomeriggio di rivolta, la polizia è intervenuta con la forza, granate stordenti e cannoni ad acqua su ordine dell’ultranazionalista e conservatore Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, il quale ha definito i manifestanti “anarchici” e “terroristi”.
L’ondata di malcontento e le sue ragioni
Benjamin “Bibi” Netanyahu, primo ministro di Israele dal 29 dicembre 2022, membro della Knesset e capo del Likud. Figura ambigua, ha fatto tanto parlare di sé non solo per le sue rigide posizioni sulla questione palestinese, ma anche per essere stato accusato di frode, corruzione e abuso d’ufficio. Si trova attualmente sotto processo.
In un clima già di per sé incendiario, dovuto alla recente approvazione del disegno di legge sulla pena di morte per “chiunque commetta un omicidio per motivi nazionali contro i cittadini di Israele”, la benzina delle proteste è rappresentata dalla possibile riforma del sistema giudiziario che l’estrema destra di Israele vuole adoperare.
Yariv Levin, attualmente Ministro della giustizia, ha proposto la riforma, supportato oltre che dalla destra conservatrice e nazionalista di Benjamin Netanyahu e Ben-Gvir, anche dai partiti ultraortodossi che affondano le loro motivazioni nella difesa delle loro libertà religiose.
La riforma consiste nell’indebolire il potere della Corte Suprema, che funge da fondamentale contrappeso all’agire del governo.
In Israele, il Parlamento è unicamerale e qualunque sua legge può essere abolita dalla Corte Suprema attraverso la cosiddetta “clausola di ragionevolezza”, il Presidente gode di poteri estremamente limitati e lo stato ebraico non ha una Costituzione scritta, la Corte veglia sulle cosiddette “Leggi fondamentali” che garantiscono i diritti individuali e civili.
La revisione del sistema giudiziario si propone di modificare principalmente due aspetti:
- Il procedimento di nomina dei giudici, di cui il governo esigerebbe il dominio totale delle nomine, sia dei giudici della Corte sia dei giudici delle corti inferiori, i quali già attualmente sono per la maggior parte conservatori.
- La clausola di ragionevolezza verrebbe abolita, permettendo alla Corte suprema unicamente di stabilire se una legge è in contrasto con le Leggi fondamentali; decisione che il Knesset potrebbe ignorare con votazione a maggioranza semplice.
Il presidente di Israele Isaac Herzog ha detto che la riforma provoca «gravi preoccupazioni per gli impatti negativi sulle fondamenta democratiche dello stato di Israele»
Costanti squilibri
Dalla destra alla sinistra radicali, dai partiti ultra ortodossi fino alle posizioni moderate centriste, si è sostenuto a lungo che la Corte Suprema godesse di poteri esageratamente invasivi. Se tali proposte diventassero reali ed efficaci, si verrebbe a creare uno scompenso spropositato nell’altra direzione: un governo eccessivamente autonomo, quasi totalmente privo di un qualsiasi organo superiore a supervisionare il suo operato.
In questo singolo caso, si tratta di un esecutivo rappresentato da individui animati da idee e posizioni particolarmente conservatrici in ambito di diritti civili e spaventosamente rigide per quanto riguarda la questione palestinese.
La proposta di revisione è stata accolta in prima lettura martedì 21 febbraio da parte del Knesset con 63 voti contro 47, mancano solo due votazioni ed entrerebbe in vigore.
A seguito del rifiuto da parte di 37 dei 40 piloti riservisti della prestigiosa squadriglia 69 di presentarsi all’addestramento di routine in protesta contro il premier “Bibi”, Yuli Edelstein, già presidente della Knesset, chiede di sospendere l’iter dell’approvazione della legge e di aprire il dialogo con l’opposizione.
I fiumi di bandiere azzurre caratterizzate dalla Stella di David che hanno inondato Gerusalemme, Haifa e Tel Aviv in queste ultime nove settimane, non sono una capricciosa opposizione che esprime il proprio dissenso contro le decisioni di un governo che non ha votato.
Si tratta di giovani, adulti e anziani pronti a gridare e combattere per ancora molti altri mesi pur di non vedere il sistema democratico della loro nazione lentamente eroso da un governo di destra ormai autoritario e assetato di potere.
Riecheggia con fervore lo slogan “Israele non diventerà una dittatura“.