Fonti locali riferiscono che Israele ha interrotto la fornitura di acqua potabile per la Striscia di Gaza a partire dallo scorso Venerdì (6 aprile), senza alcun preavviso. Maher Salem, il Direttore dell’Autorità Idrica di Gaza, riferisce che Mekorot, il fornitore israeliano, si è limitato a comunicare che la fornitura di acqua sarebbe stata sospesa per un paio d’ore a causa di interventi di manutenzione. Da allora non è stata più ripristinata. Mekorot vende acqua a Gaza sulla base di un accordo stipulato lo scorso anno.
Secondo Salem più di 200.000 palestinesi dell’enclave costiera beneficiano della fornitura di acqua israeliana. Infatti, tutti i pozzi palestinesi situati vicino ai confini di Gaza sono collassati a causa di quelli più profondi scavati da Israele. Dal momento che ai palestinesi non è permesso scavare pozzi oltre i cento metri, essi dipendono dalla fornitura di acqua israeliana. Quando questa si interrompe, i residenti di Gaza soffrono di una severa carenza di acqua potabile, poiché più del 95% dell’acqua del territorio non è idonea al consumo umano, secondo gli standard dell’OMS.
Una punizione collettiva per le proteste
L’interruzione della fornitura di acqua arriva nel corso della Grande Marcia del Ritorno, inaugurata venerdì 30 marzo (Giornata della terra). L’esclusione di un’intera comunità dall’accesso alla fornitura di acqua potabile rappresenta una punizione collettiva, vietata dal diritto internazionale. Tuttavia lo stato di Israele sembra considerarsi al di sopra del diritto internazionale, che viola sistematicamente da cinquant’anni a questa parte. La protezione della popolazione civile, la distinzione dei civili dai partecipanti a un conflitto, l’uso proporzionato e misurato della forza sono alcuni dei principi cardine del diritto internazionale umanitario. Si tratta di principi di derivazione consuetudinaria, quindi inviolabili da parte di tutti gli stati, indipendentemente dalla loro adesione o meno a Patti e Convenzioni. Nonostante ciò, Israele li viola continuamente.
Uso sproporzionato della forza
Durante le manifestazioni di venerdì 30 marzo e venerdì 6 aprile, l’esercito israeliano ha ucciso trentuno palestinesi e ne ha feriti oltre duemila. Israele ha schierato sul confine cento cecchini, oltre a droni e carri armati. Tutti con licenza di uccidere. Il portavoce dell’esercito ha dichiarato che le persone colpite stavano compiendo atti violenti. Tuttavia, come fa notare Amnesty International in un comunicato, è difficile pensare che il lancio di pietre e altri oggetti potesse costituire una grave minaccia per soldati perfettamente equipaggiati e protetti da cecchini, droni e carri armati. Ennesimo caso di uso sproporzionato e ingiustificato della forza, quindi, per il quale Amnesty International e il Segretario Generale delle Nazioni Unite hanno sollecitato un’inchiesta. Sollecitazione che Israele ha rispedito al mittente, spiegando che aveva avvertito i palestinesi di tenersi alla larga dal confine.
Terroristi o manifestanti?
Chi sono alcuni dei pericolosi manifestanti assassinati? Vento di Terra ONG fa sapere che uno di loro frequentava la loro scuola di Rafah. Si tratta di Alaa Yahya Alzamli, 16 anni soltanto. Sulla pagina Facebook dell’Organizzazione si legge che il ragazzo era uno degli studenti migliori. Suo padre lavora come insegnante nella stessa scuola. Anche Ahmad Ibrahim Odeh aveva 16 anni e anche lui si è reso colpevole di “eccessiva vicinanza al confine”, nuovo reato capitale. Poi c’è Omar Samour, 27 anni. Era un agricoltore che la mattina del 30 marzo si trovava sul suo terreno. L’esercito ha spiegato così la sua morte:
Due sospetti si sono avvicinati alla barriera di sicurezza nel sud della Striscia di Gaza e hanno cominciato a comportarsi in maniera strana.
Comportamento strano. Altro reato capitale.
Ucciso anche un giornalista
Yasser Murtaya invece era un giornalista di 30 anni. Venerdì 6 aprile era alla manifestazione in qualità di giornalista per l’Agenzia Ain Media di Gaza. Si trovava a oltre cento metri dal confine, indossava un giubbotto antiproiettile con la scritta “PRESS” e teneva in mano la sua macchina fotografica. Un cecchino l’ha colpito e ucciso. Per questo, Reporter Senza Frontiere ha accusato l’esercito israeliano di sparare deliberatamente sui giornalisti. La giustificazione per questa morte non è ancora arrivata, tuttavia Israele ha escluso l’atto deliberato. Che si sia trattato di un altro caso di comportamento strano?
Michela Alfano
Gaza è in guerra con Israele. Avvicinarsi alla rete del confine è da deficienti.
Il trentenne ucciso che indossava la scritta PRESS era un capitano di Hamas.
Le prove? Perché è molto facile giustificare ogni morte con “era un pericoloso terrorista”. Solo che poi bisogna dimostrarlo, altrimenti è solo una cosa detta per salvare la faccia. Da quello che risulta il “capitano di Hamas” aveva recentemente ottenuto un finanziamento dal governo statunitense, non proprio noto per le simpatie verso Hamas. Quanto alla rete del confine il diritto internazionale umanitario parla chiaro: bisogna distinguere sempre tra partecipanti al conflitto e civili, deficienti o meno.