Dalia Ismail
Collaboratrice freelance palestinese italiana. Sta terminando gli studi in Sicurezza Internazionale. Oltre a scrivere per Ultima Voce, ha pubblicato articoli per numerose testate nazionali
Nell’ambito delle relazioni internazionali, la relazione tra Israele e il diritto internazionale suscita dibattiti accesi e opinioni contrastanti, riflettendo una complessa dinamica geopolitica e storica. Da decenni, le azioni di Israele e le relative controversie legali alimentano un dibattito globale sul rispetto delle norme internazionali, sollevando interrogativi fondamentali sulla giustizia, l’equità e il ruolo delle istituzioni internazionali nel garantire il rispetto dei diritti umani e della legge internazionale.
Raramente, come in questo momento, è stato così chiaro il rapporto di forza all’interno del sistema internazionale e il suo impatto sulla modalità di applicazione del diritto internazionale. George Monbiot, editorialista del The Guardian, ha sottolineato questa realtà in un articolo pubblicato undici anni fa, intitolato “L’imperialismo non è finito. Al giorno d’oggi è noto come diritto internazionale“. Monbiot evidenzia come, nonostante il diritto internazionale possa teoricamente sostenere un’uguaglianza di diritti e doveri per tutti gli stati e i popoli del mondo, nella pratica esso rimanga un “progetto imperiale”, dove vengono punite solo le violazioni commesse dagli “stati vassalli”, mentre gli stati più potenti godono di una relativa impunità. Questo scenario getta luce su un’ingiustizia strutturale nel sistema internazionale che ha profonde implicazioni per i diritti umani e la giustizia globale.
Monbiot, per rafforzare la sua tesi sul carattere imperialista del diritto internazionale, cita il caso di Charles Taylor, ex presidente liberiano, condannato a 50 anni di carcere per aver commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità nella guerra civile in Sierra Leone. Si dice che, dopo la condanna, egli abbia inviato un messaggio ai leader dell’epoca, asserendo che se si governa una nazione piccola e debole, si può essere soggetti alla piena forza del diritto internazionale; se, al contrario, si governa una nazione potente, non si ha nulla da temere.
Taylor, condannato nel 2012, è stato il primo ex presidente di uno Stato a venire sentenziato dai tempi del processo di Norimberga, nonostante prima di quell’anno siano stati commessi numerosi crimini di guerra e contro l’umanità da parte di presidenti di Stati che, al contrario, sono rimasti completamente impuniti.
La radice coloniale del diritto internazionale
Il trauma della Prima Guerra Mondiale ha segnato un punto di svolta nelle relazioni internazionali, portando a un cambiamento significativo nel modo in cui il diritto internazionale è stato concepito e applicato. Antony Anghie, docente di legge presso l’università Nazionale di Singapore, nel suo articolo “L’evoluzione del diritto internazionale: realtà coloniali e postcoloniali“, evidenzia come prima della guerra il diritto internazionale avesse sostenuto l’imperialismo e lo sfruttamento delle colonie. Tuttavia, durante il periodo tra le guerre mondiali, la Società delle Nazioni ha cercato di contrastare questo approccio, cercando di migliorare le condizioni economiche delle colonie e trattandole come “territori arretrati” da sviluppare. Questo cambiamento di prospettiva ha continuato a evolversi dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando molte colonie hanno ottenuto l’indipendenza e le nuove nazioni indipendenti sono diventate la maggioranza delle Nazioni Unite. Tali Stati hanno lavorato attivamente per proteggere la propria sovranità e per eliminare gli effetti persistenti del colonialismo.
Questo nuovo scenario post-bellico ha evidenziato un’altra dinamica importante nel sistema internazionale: il predominio dei paesi economicamente più potenti. Queste nazioni, grazie alla loro ricchezza e influenza, hanno esercitato un maggiore potere politico e hanno avuto un’influenza significativa sullo sviluppo del diritto internazionale, nonostante rappresentassero una minoranza. Questo privilegio accordato ai paesi più ricchi e sviluppati ha spesso posto i paesi più piccoli e deboli in una posizione di svantaggio nella protezione dei propri diritti e interessi. Il potere economico delle nazioni dominanti ha permeato le istituzioni internazionali e le relazioni bilaterali e multilaterali, determinando la direzione e le priorità delle norme internazionali. In questo contesto, il processo di decolonizzazione e la lotta per la sovranità delle nuove nazioni indipendenti hanno rappresentato sfide significative per il sistema internazionale, evidenziando la necessità di una maggiore equità e giustizia nel diritto internazionale.
Sentenza Nicaragua vs Stati Uniti: la rappresentazione per eccellenza del rapporto di forza tra Stati
Una delle sentenze più emblematiche che mettono in luce l’iniquità nel sistema internazionale è il caso del Nicaragua contro gli Stati Uniti, che ha visto il Nicaragua rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia accusando gli Stati Uniti di violazioni del diritto internazionale. In questo caso storico, il Nicaragua ha accusato gli Stati Uniti di aver utilizzato la forza armata diretta, incluso il posizionamento di mine nelle sue acque territoriali e il sostegno a delle milizie per rovesciare il governo nicaraguense legittimo dell’epoca. Gli Stati Uniti sono stati giudicati colpevoli in quanto le accuse formulate dal Nicaragua sono risultate fondate.
La sentenza della Corte ha ordinato agli Stati Uniti di cessare le azioni ritenute illegittime, fornire riparazioni al Nicaragua e rispettare gli obblighi internazionali. Tuttavia, gli Stati Uniti hanno rifiutato di accordare riparazioni e hanno utilizzato il loro potere di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per bloccare ulteriori azioni richieste.
Questo episodio evidenzia la complessa relazione tra imperialismo e diritto internazionale, come argomentato da Antony Anghie nel suo libro “Imperialismo, Sovranità e la creazione del diritto internazionale”. Anghie sostiene che il diritto internazionale è intrinsecamente influenzato dall’imperialismo e dall’incontro coloniale, evidenziando come abbia spesso giustificato e facilitato l’espansione coloniale e l’oppressione dei popoli non europei.
Attraverso esempi storici, come il caso di Francisco de Vitoria nel XVI secolo e la Conferenza di Berlino del XIX secolo, Anghie dimostra come il diritto internazionale abbia spesso favorito gli interessi delle potenze coloniali a discapito delle nazioni non europee.
Il rapporto tra Israele e il diritto internazionale
“La maschera che ha a lungo oscurato la vera natura e lo scopo del diritto internazionale, il presunto fondamento dell’attuale ordine globale, è finalmente tolta. Mentre le grida di aiuto dei palestinesi da Gaza rimangono senza risposta, la sinistra verità è ora innegabilmente allo scoperto: la giustizia internazionale, il più delle volte, è usata come strumento per promuovere gli interessi imperiali, e non la giustizia. Questo era, naturalmente, noto da tempo a chiunque abbia mai esaminato, anche superficialmente, la storia dell’imperialismo, dalla corsa europea per l’Africa ai più recenti interventi degli Stati Uniti in America Latina, e ha compreso come quel passato oscuro abbia contribuito a plasmare il modo in cui il mondo funziona oggi”.
Così scrive Wesam Ahmad, difensore dei diritti umani per l’ONG palestinese Al-Haq, in un articolo di opinione pubblicato da Al Jazeera, intitolato “La maschera è tolta: Gaza ha smascherato l’ipocrisia del diritto internazionale”.
Con l’attuale genocidio a Gaza e l’aumento della repressione degli attacchi dei coloni e dell’esercito nella Cisgiordania occupata, è evidente a chiunque che la comunità internazionale è paralizzata nell’affrontare le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale perpetrate da Israele. Nessuno può più negare che Israele abbia una posizione molto privilegiata alle Nazioni Unite e che il trattamento ad esso riservato è unico.
La comunità internazionale è inerte e incapace di agire di fronte alle continue violazioni commesse da Israele, dimostrando così l’ipocrisia del diritto internazionale. È significativo notare che, nonostante le prove schiaccianti di violazioni dei diritti umani e delle leggi internazionali scritte in numerosi rapporti dalle organizzazioni per i diritti umani più importanti, non sono stati presi provvedimenti significativi contro Israele.
Nel 2022, il giornalista israeliano Gideon Levy scriveva per il Middle East Eye un articolo dal titolo “Strappare le prove: come Israele mantiene l’impunità globale”. Qui, il giornalista esamina come Israele riesce a mantenere l’impunità a livello globale nonostante le continue violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale. Levy cita l’evento del 10 novembre 1975 in cui Chaim Herzog, all’epoca ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, strappò il testo della Risoluzione 3379, adottata lo stesso giorno (immagine in copertina). Questa risoluzione dichiarava che “il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale“. L’azione di Herzog fu vista come una risposta adeguata a ciò che gli israeliani ritenevano un atto di antisemitismo globale.
Nello stesso articolo, si evidenzia come l’atteggiamento di Israele verso le organizzazioni internazionali e il diritto internazionale non sia cambiato nel corso dei decenni dopo la risoluzione 3379 del 1975. Un esempio di ciò è rappresentato dall’episodio del 29 ottobre 2021, in cui l’attuale ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha strappato pubblicamente il rapporto annuale del Consiglio per i diritti umani dell’ONU e ha chiesto di considerarlo come un atto antisemita.
Nonostante Israele sia un paese fondato proprio grazie al sostegno dell’ONU e della comunità internazionale, cerca costantemente di minare tali organizzazioni nel momento in cui queste diventano critiche nei suoi confronti, scrive Levy.
Israele rifiuta di accettare qualsiasi rapporto o indagine internazionale sulle sue azioni. Anche se il resto del mondo potrebbe criticare verbalmente Israele, si affretta sempre a difenderlo quando si tratta di azioni concrete. Nessun altro paese gode dell’impunità di Israele, nonostante le sue violazioni dei diritti umani e il perpetuarsi dell’occupazione illegale, sostiene il giornalista.
Israele non ha mai riconosciuto pubblicamente le sue azioni indifendibili di fronte alla comunità internazionale, e la stessa comunità non ha mai adottato misure concrete per porre fine all’impunità e portare i responsabili davanti alla giustizia. Così, il ciclo di impunità continua, alimentato dalla mancanza di volontà politica e di azione da parte della comunità internazionale, in particolar modo dagli Stati Uniti, che storicamente esercitano quasi sempre il loro diritto di veto per bloccare ogni risoluzione che condanna Israele.
L’analisi di diverse prospettive e fatti storici ci porta a comprendere la complessità del rapporto tra Israele, il diritto internazionale e la comunità internazionale nel suo insieme. Attraverso esempi concreti e analisi, emerge chiaramente come Israele goda di un trattamento privilegiato e di un’impunità quasi totale nonostante le continue violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale che vengono commesse sistematicamente dal 1948. Questo perpetuo stato di impunità dimostra l’iniquità su cui si basa il sistema internazionale, e come questo alimenta le disuguaglianze e le ingiustizie nel modo in cui vengono applicate le leggi internazionali. È evidente che la comunità internazionale, in particolare con gli Stati Uniti con il loro diritto di veto e la loro posizione di prima potenza mondiale, ha fallito nel porre fine all’imperialismo e al colonialismo, nonché nel portare i responsabili davanti alla giustizia.