L’Isola di Hashima, anche conosciuta con il nome di Gunkanjima, è un luogo che ha ospitato una grandissima miniera di carbone. L’inizio della sua storia si pone nel 1890 quando la Mitsubishi acquistò l’intera isola per crearne una miniera di estrazione del carbone.
Da quel momento iniziarono i lavori di costruzione delle abitazioni destinate ai lavoratori. L’Isola, che è situata a pochi chilometri dalla città di Nagasaki, serviva come punto di rifornimento per il fabbisogno energetico della città giapponese.
Isola di Hashima, la superficie
La sua esigua superificie, di 480 metri di lunghezza e 150 metri di larghezza, ha ospitato la più densa popolazione del mondo. Soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale raggiunse il numero di 5000 abitanti in uno spazio veramente ristretto. Sulla superficie erano presenti numeori edifici pubblici oltre ai grandi condomini che erano destinati ad ospitare le famiglie e i lavoratori.
Vi erano scuole, una palestra, un cinema, 25 negozi, un bar, alcuni ristoranti, templi, un ospedale e anche un bordello. Ma data la superficie molto piccola gli spazi erano organizzati ossessivamente, quasi come un puzzle. Gli alloggi erano divisi tenendo conto delle gerarchie sociali, quindi ai lavoratori più umili erano destinati i luoghi più terrificanti in cui alloggiare. I bagni e le cucine erano in comune quasi per tutti.
Il lavoro sull’isola
Nel 1916 venne costruito il primo grande condominio in cemento ma due anni dopo ne venne costruito un altro che all’epoca era considerato il condominio più alto del Giappone. Più cresceva la domanda del carbone e più crescevano gli edifici. Durante la Seconda Guerra Mondiale, dato che i giapponesi si trovavano al fronte, la manodopera era destinata a coreani e cinesi. In quel periodo più di 1300 lavoratori morirono per la fatica e la malnutrizione. Alcuni invece tentarono più volte di scappare a nuoto morendo tra le correnti marittime.
Uno dei minatori coreani sopravvissuto, ha rilasciato alcune dichiarazioni che descrivono in maniera accurata la situazione tragica in cui si trovavano i lavoratori. Si viveva in otto in una sola stanza, ognuno era sorvegliato da guardie giapponesi armate e durante il giorno gli abitanti erano costretti a lavorare in spazi molto angusti e sotto terra. La paura che qualche muro crollasse era la costante di ogni giorno. Il testimone ha inoltre dichiarato di aver sempre pensato di non lasciare quell’isola da vivo.
I viveri
Il cibo e tutti i viveri essenziali per la sopravvivenza, fino al 1957, provenivano dalla terraferma. Il cibo, i vestiti e l’acqua potabile erano da utilizzare in maniera parsimoniosa. La sua superificie, essendo composta per la maggior parte di cemento, non permetteva agli abitanti di coltivare, quindi nel 1963 trovarono un modo per ingegnarsi e dunque allestirono degli orti sui tetti dei palazzi. Questo fu possibile grazie alla terra che veniva portata dalla terraferma.
Isola di Hashima, l’abbandono
Alla fine degli anni ’60 la richiesta di carbone diminuiva sempre di più grazie all’avvento del petrolio. Nel 1973 le estrazioni minerarie si conclusero definitivamente e l’isola di conseguenza fu abbandonata. Il 20 aprile del 1974 l’ultimo lavoratore lasciò ufficialmente l’isola di Hashima, per sempre.
Oggi questo luogo è ancora disabitato e lasciato al totale abbandono, ogni anno viene visitato da turisti curiosi di scoprire le sue rovine. È diventato uno dei maggiori esempi di archeologia industriale e meta preferita dagli appassionati di luoghi abbandonati. Dal 2015 inoltre l’isola è stata inserita tra i patrimoni dell’UNESCO come uno dei ventitrè siti storici industriali del mondo.
Rebecca Romano