La linea dura della deterrenza contro il nemico promossa da forze armate e tecnocrati in opposizione alla “pazienza strategica” sposata invece dal neoeletto Presidente riformista Masoud Pezeshkian
La politica interna a Teheran
L’incertezza è il sentimento prevalente che aleggia sulla politica iraniana ad ogni livello. La crisi innescata dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas ha sconvolto completamente la politica del paese portando la Repubblica Islamica a prendere decisioni che potrebbero essere determinanti per la sopravvivenza del regime degli Ayatollah.
La morte del ex Presidente Ebrahim Raisi, avvenuta in circostanze ancora non del tutto chiare, aveva aperto il paese alla possibilità di una svolta politica grazie all’elezione di Masoud Pezeshkian. Il nuovo presidente, conservatore ma riformista è infatti portavoce di una politica di apertura e dialogo con l’occidente, funzionale alla ripresa delle discussioni sul programma nucleare iraniano, posizioni alle quali si oppongono gli elementi più ultraradicali e religiosi del panorama conservatore della politica in Iran.
Alta tensione tra Israele e Iran
Il giorno dell’insediamento del nuovo presidente è però coinciso con l’assassinio del leader di Hamas Isma’il Haniyeh, avvenuto nel nord di Teheran dove il capo politico del gruppo armato palestinese soggiornava in visita. Nonostante l’enorme imbarazzo l’Iran era riuscito a mantenere il controllo, promettendo vendetta ma non rispondendo militarmente all’uccisione del leader di Hamas che più di ogni altro spingeva per la firma di un accordo per il cessate il fuoco a Gaza. Le ragioni: la volontà di alleggerire le sanzioni internazionali che gravano sull’economia del paese e il proseguimento degli accordi sul nucleare che dovranno necessariamente attendere l’insediamento del nuovo inquilino della Casa Bianca.
Questo avveniva il 31 luglio 2024, a seguito abbiamo assistito all’aggressione di Israele contro il Libano, condotta con una violenza e un livello di distruzione a cui non si assisteva da anni e che ha portato all’uccisione del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah a fine settembre.
Il tutto mentre la politica di Masoud Pezeshkian verso la ripresa dei colloqui sul nucleare veniva ostacolata da nuove restrizioni statunitensi alla capacità di deterrenza che l’industria militare iraniana è in grado di generare, grazie allo sviluppo del settore missilistico.
Questo ha condotto al cambio di paradigma, all’affossamento della linea della “pazienza strategica” e all’innalzamento del livello dello scontro che era comunque in corso da anni ma che la mattanza del 7 ottobre aveva intensificato.
L’antecedente scambio di fuoco con l’attacco di Israele al consolato iraniano di Damasco, costato la vita a Mohammad Reza Zahedi, e la vendetta ampiamente preannunciata da Teheran del 13 aprile rientravano ancora in un ragionato scambio di rappresaglie, così come la debole risposta del 19 di Tel Aviv.
La situazione è mutata drasticamente con l’attacco e l’invasione del libano condotto dalle IDF, il coinvolgimento diretto di Hezbollah e la conseguente risposta di Teheran il primo ottobre. Questa volta il tutto si è svolto con brevissimo preavviso, ha mirato ad obbiettivi sensibili ed è stato condotto con missili balistici e ipersonici capaci di raggiungere l’obbiettivo in soli 12 minuti.
La risosta di Israele ha richiesto 25 giorni, possibilmente impiegati per organizzarla, ma soprattutto per negoziare con gli Stati Uniti la legittimità degli obbiettivi da colpire. Pare l’unica volta in cui il governo di Netanyahu abbia dato retta all’alleato e protettore, in quanto un attacco senza freni su istallazioni nucleari o petrolifere in Iran avrebbe potuto scoperchiare il vaso di Pandora, toccando direttamene gli interessi di Cina e Russia che acquistano petrolio dall’Iran e a livello globale per via dell’innalzamento dei prezzi del barile.
La promessa iraniana di una nuova risposta militare
Ora la retorica infuocata della guida suprema Ali Khamenei torna a promettere una ulteriore risposta a questa spirale di violenza che avvolge la regione. Gli USA stanno intervenendo con l’invio di nuovi contingenti nelle sue basi strategiche per contenere la minaccia iraniana, mentre Israele continua a bombardare ed essere bombardata ma con una netta differenza nei livelli di letalità di queste azioni militari. Nelle ultime 24 ore Hamas afferma che più 84 persone, tra cui 50 bambini sono stati uccisi nel nord di Gaza, mentre un attacco che ha colpito la città di Tira nel centro di Israele ha ferito 19 persone. Quest’ultimo partito dal sud del Libano e condotto dalle milizie di Hezbollah.
Sembra destinata a fallire l’iniziativa USA per un cessate il fuoco in Libano dove continuano gli scontri. La notizia giunge dal presidente del Parlamento libanese Nabih Berry, che in un’intervista ha accusato Benjamin Netanyahu di aver rifiutato le richieste libanesi mediate dall’inviato americano Amos Hochstein.
Lo sviluppo di questi ultimi mesi ha sicuramente decretato la fine della possibile linea di dialogo del presidente iraniano e del suo programma riformista. La violenza come sempre è stata promossa dal timore per la sopravvivenza in quella dinamica di potere che vede il successo del più forte come l’unica soluzione, escludendo il dialogo.
Il rischio di uno scontro militare diretto tra Iran e Israele esiste e forse stiamo assistendo alla sua fase preliminare, la vera priorità di Teheran è quella di assicurarsi l’unico strumento di deterrenza capace di dissuadere i suoi nemici, che già lo posseggono. L’atomica.