Ione: le fragili verità umane, le menzogne spudorate degli dei

Ione, protagonista della tragedia di Euripide, viene allevato dalla Pizia, sibilla di Delfi, qui ritratta da Michelangelo

La Pizia, nota anche come Sibilla Delfica, ritratta da Michelangelo nella Cappella Sistina.

Un dio farabutto, una madre che si crede senza figli, un orfano che orfano non è e un trono ateniese pericolosamente privo di eredi. Ci sono tutti gli elementi perché questa vicenda finisca nel sangue: con una congiura di palazzo o con una guerra tra le mura della città. Invece lo Ione di Euripide – tragedia composta tra il 419 e il 412 a.C. – trasgredisce i canoni del genere e paradossalmente ha un lieto fine. O quasi. Perché le verità faticosamente conquistate dai mortali, per il bene superiore della città o l’obliquo volere degli dei, vanno comunque taciute. E magari, se ci si riesce, anche dimenticate.

Ione, giovane erede al trono di Atene, all’inizio della tragedia non è affatto Ione. È solo un servo del santuario delfico di Apollo, un orfano senza nome. Abbandonato ancora in fasce sulla scalinata del tempio, il ragazzo è stato cresciuto dalla Sibilla e dai sacerdoti. Abituandosi a chiamare “padre” il dio senza sapere quanto letterale sia quell’appellativo. Perché Ione è davvero figlio di Apollo. Questo è il suo padre biologico, mentre sua madre è Creusa, regina di Atene, che lo ebbe dal dio prima di sposare lo straniero Xuto. Ma perché un ragazzo di lignaggio tanto nobile cresce ignaro di sé, spazzando l’ingresso del tempio e tenendo lontani gli uccelli dalle offerte dei fedeli? Perché la sua nascita è frutto di una colpa: una macchia sulla già non limpida reputazione del suo divino padre. Ione, infatti, nacque dallo stupro che Apollo compì su Creusa quando era ancora una giovane principessa.

Dio dalla bellezza eterea e quasi femminea, protettore delle arti, Apollo è una delle divinità più contraddittorie del pantheon greco. Nobile nell’aspetto, infatti, nel mito si rivela più volte implacabile, crudele e addirittura codardo: non a caso, del resto, viene spesso chiamato “l’Obliquo”. Nello Ione euripideo il suo comportamento non fa eccezione: grande assente sulla scena, il dio trama costantemente nell’ombra per mantenere segreto il proprio crimine. Ed è disposto a tutto pur di non doverne rendere conto.

Infatti, quando Creusa per scampare alla vergogna abbandona il neonato, Apollo lo fa mettere in salvo da Ermes a Delfi. Tuttavia, il dio lascia poi che suo figlio cresca da servo fino a quando un re dal trono traballante, Xuto di Atene, giunge al santuario. Costui è un re straniero nella città che governa, perché l’ha ottenuta sposando Creusa dopo aver sconfitto i nemici della città. Se il loro matrimonio resterà sterile, ad Atene si scatenerà una lotta per la successione: dall’oracolo gli sposi vogliono speranza. Non solo: Creusa brama conoscere la sorte di quel bambino abbandonato, atto per il quale non si dà pace, e chiedere conto al dio. Ma con la propria vittima Apollo tace, indifferente come solo un dio può essere. Mentre all’ingenuo Xuto, che lo interpella solo – come esige il rito – nell’antro di Trofonio, il dio appioppa proprio il ragazzo, facendogli credere che sia suo.




Una notte di follie durante le festività in onore di Dioniso, una donna dimenticata, un figlio mai conosciuto che ora vive proprio al tempio. Questi i brandelli di risposta che l’oracolo concede a Xuto: vaghi, implausibili, ma il re ha bisogno di crederci e ci crede. Crede sia davvero suo figlio il ragazzo che, come predetto da Apollo, gli va incontro all’ingresso del tempio. E così, nel dirsi suo padre, lo battezza “Ione” – dal participio greco del verbo che descrive l’azione con cui il figlio gli si sarebbe rivelato.

Uno sprovveduto onesto, Xuto, che nell’ansia di paternità fatica a comprendere le riserve del ragazzo. Il quale dapprima si chiede – in uno scambio davvero spassoso – se abbia a che fare con un folle o un pervertito, poi semplicemente dubita. Dubita, pur nel suo essere pio, della veridicità del responso e dell’esattezza dell’interpretazione. Dubita del proprio futuro ad Atene: straniero figlio di un re straniero e di una madre ignota, chi mai lo vorrebbe come principe? Con che diritto potrebbe parlare nell’assemblea, esercitando la parresia? E come potrebbe convivere con colei che crede sua matrigna, Creusa, donna senza figli che certo, sentendosi tradita, tramerebbe contro il figliastro? Così, si chiede Ione,

chi tira avanti tra timori e sospetti, come potrà vivere bene? Meglio vivere da privato cittadino che da re, se un re deve farsi amici i malvagi e detestare i buoni, vivendo nel timore di morire.

Xuto liquida sbrigativamente i timori del ragazzo, invitandolo a essere grato per questa sorte, che è dono del dio. Il giovane, però, ha visto più lungo del padre putativo: informata dalle ancelle della svolta, Creusa è furibonda e trama vendetta. Ma prima di compierla, in lacrime la regina di Atene svela al suo seguito, composto dalle ancelle e da un vecchio pedagogo, la propria vergogna. Accusando, alla fine apertamente, Apollo in una requisitoria disperata. E chiarendo perché sia doppiamente oltraggiosa la grazia che il dio ha concesso ora a suo marito soltanto, col donargli un figlio.

Se piango è perché l’anima è piagata: troppo fu provata dagli uomini e dagli dei, come io ben so, traditori. In piena luce griderò il mio biasimo a te, figlio di Latona, che suoni la tua cetra di sette corde. Venisti da me, con la tua chioma lucente, mentre raccoglievo fiori dai petali gialli in un prato. Mi prendesti per i polsi, mi trascinasti nella spelonca mentre gridavo, facesti quel che credevi. Ti generai un figlio e, temendo la vergogna, lo abbandonai là, nella grotta dove mi avevi presa. Il mio povero bambino lasciato alle fiere. Mio figlio… tuo figlio! […] Dio seduttore! A chi non ti diede nulla e mi sposò ora tu, cantando i tuoi canti come se nulla fosse, doni un figlio? Eppure hai lasciato che gli uccelli divorassero in fasce quel figlio, mio come tuo! Non sei degno della venerazione che si ha per te!

Tutto il seguito è concorde: il ragazzo deve morire. Combattuta, alla fine Creusa si convince e incarica il vecchio istitutore di avvelenare il figliastro. Il veneficio, però, fallisce, e Ione istiga i concittadini al linciaggio della matrigna, che deve rifugiarsi presso l’altare del dio per aver salva la vita.

Non è la prima volta che madre e figlio s’incontrano senza riconoscersi. La tragedia, infatti, si apriva con il loro incontro all’ingresso del santuario. Al giovane, che simpatizzava con la pena sul volto della regina, Creusa raccontava indirettamente la propria vicenda, ricevendone conforto. Perciò lo elogiava dicendo: «Benedetta tua madre!» – uno degli esempi di ironia tragica che pervade il testo colpendo ancora il lettore. Alle parole cortesi, ora, si sono sostituiti gli insulti. E Ione, anche se Creusa siede protetta sull’altare, sarebbe pronto con la spada a chiudere i conti, se dal tempio non uscisse la Pizia. La sacerdotessa, che il giovane chiama “madre”, porta sotto braccio la cesta nella quale Ione fu abbandonato presso il tempio. Dietro ordine di Apollo, lo invita a non macchiarsi di un delitto nel santuario. Se ne vada puro, invece, e con gli oggetti che lo accompagnavano da neonato cerchi la propria madre.

«Per il dio io ti ho cresciuto, figliolo! Ora, ti rendo questi oggetti che lui m’ispirò a conservare. Perché poi lo volesse, non lo so. […] Quanto a tua madre, inizia la ricerca: vedi prima se una donna delfica ti mise al mondo esponendoti nel tempio, o se fu una dell’Ellade. Questo è tutto da parte mia. E da parte di Febo, per la parte ch’ebbe in questa storia» dice la Pizia, congedandosi dal giovane.

Guardando la cesta, però, Creusa trasecola: le è familiare. Perciò, lascia l’altare a rischio della vita e dice a Ione di sapere bene cosa essa contenga. Infatti, vi depose il proprio figlio, abbandonandolo. In luce del precedente tentato veneficio, il ragazzo non si fida: mette alla prova la regina, chiedendole di descrivere senza vederlo il corredo del neonato. Creusa non ha dubbi. Una coperta realizzata da lei, con la Gorgone ornata di serpi. Un ciondolo con due serpenti d’oro, amuleto da neonato. E una corona di foglie perenne ricavata da un ulivo sacro sull’Acropoli. Ione lascia cadere la spada: madre e figlio possono finalmente abbracciarsi tra le lacrime. Dopo la gioia, però, sorgono in Ione dubbi pungenti. Non sarà che Creusa lo attribuisce al dio per nascondere qualche errore di gioventù? E se lui è davvero “di Apollo”, che fare con Xuto? E perché mai il dio lo avrebbe “donato” a questo padre?

Proprio mentre Ione sta per entrare nel tempio a interrogare Apollo, però, appare sul tetto del tempio, deus ex machina, la dea Atena.

Protettrice di Atene – dunque garante del futuro di Ione e Creusa – la dea è anzitutto messaggera di un dio che non osa presentarsi sulla scena. Atena lo dice apertamente:

sono venuta di corsa su richiesta di Apollo. Non ha voluto venirvi innanzi perché non intervenisse il biasimo delle cose passate.

La dea conferma a Ione la sua origine divina e difende l’operato di Apollo: dandolo in adozione a Xuto, garantisce al figlio un futuro glorioso. Il re di Atene, però, non dovrà mai conoscere la verità: su questo Atena, rivolgendosi a Creusa, è categorica.

Ora tu taci che il figliolo è tuo, perché si pasca d’illusione Xuto.

E con questo ordine oscuro, accolto con obbedienza da madre e figlio che si congedano in pace dal dio partendo per Atene, termina la tragedia.

Quale sia il senso di questo inganno, nonché della tragedia stessa, lo chiarisce Diego Lanza in un interessante commento della tragedia, scrivendo:

con un raffinato congegno di equivoci, Euripide tesse drammaturgicamente il grande equivoco della tradizione […] facendolo riconoscere come tale. Così, smaschera l’impostura che si nasconde in ogni leggenda, la falsificazione che il mito impone alla realtà nel rappresentarla, ponendo in tensione vissuto e rappresentazione.

La cultura ateniese dell’epoca era fondata su certezze ben definite: autoctonia, patrilinearità, controllo dell’eros. Il personaggio di Ione, le sue origini, tutta la sua vicenda costituiscono una fortissima provocazione nei confronti di questo contesto. Infatti,

creduto figlio dello straniero, Ione ibrida e smentisce la purezza autoctona degli Ateniesi, la territorialità della società ordinata da Clistene. Li riconduce a parentele gentilizie panelleniche e più strettamente peloponnesiache.

Una presa di posizione difficile da digerire per gli Ateniesi che, allora in piena guerra del Peloponneso, si erano ormai inimicati quasi tutta la Grecia.

Lo Ione, dunque, è la tragedia in cui Euripide dà voce all’esperienza sconcertante per la città seguita all’inizio della guerra e alla morte di Pericle. Alla scoperta che, cioè, nel luogo identificato come culla della civiltà, ogni verità può rivelarsi temporanea, falsificabile, sostituibile da altre verità più utili al potere. Scrive ancora Lanza:

il doppio riconoscimento di Ione, quello con Creusa e quello con Xuto, mette in scena il doppio filone della memoria ateniese. Quello gentilizio panellenico e quello locale, specifico, del miracolo ateniese. Il gioco di Apollo e Atena, intanto, esibisce davanti al pubblico la strategia della doppia verità. Di una nobile menzogna chiamata a garantire una fragile verità.

Forse, è questa la ragione per cui la lettura dello Ione può risultare così affascinante per il lettore contemporaneo. La tragedia, infatti, ci obbliga a chiederci: come si può edificare e reggere non soltanto una vita, bensì un’intera civiltà, sulla menzogna? E, soprattutto: noi che siamo a stento consapevoli dei nostri miti fondativi, saremmo in grado di accorgerci di combattere per una menzogna?

Valeria Meazza

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