Intervista a Wlodek Goldkorn: “in una situazione di crisi abbiamo bisogno di un capro espiatorio”

Wlodek Goldkorn

Per molti anni responsabile culturale de «L’Espresso», Wlodek Goldkorn ha lasciato la Polonia, sua terra nativa, nel 1968 e vive a Firenze.
Ha scritto numerosi saggi sull’ebraismo e sull’Europa centro-orientale. Goldkorn è co-autore con Rudi Assuntino de Il Guardiano e con Massimo Livi Bacci e Mauro Martini di Civiltà dell’Europa Orientale e del Mediterraneo (Longo Angelo, 2001), nonché, tra i vari, autore di La scelta di Abramo, Identità ebraiche e postmodernità (Bollati Boringhieri, 2006).

Per Feltrinelli Goldkorn ha, invece, pubblicato l’anno scorso Il bambino nella neve .

 

Il bambino nella neve – Feltrinelli

Quest’ultimo è un’autobiografia, un racconto, un saggio, una vera e propria riflessione problematica sull’essere ebrei nel XX secolo: cos’è la memoria? Cos’è il passato? Cosa resta delle vite e delle morti di chi abbiamo amato e ci ha preceduto?
Il punto di vista del narratore è quello proprio, di Goldkorn da bambino.
Un bambino che è figlio di genitori sfuggiti alle persecuzioni disumane della seconda guerra mondiale, costretti a vivere in una casa abbandonata dai tedeschi, tra mobili con le svastiche e il peso di una memoria che non si può dimenticare, ma solo trasmettere. Una storia struggente, che già dalle prime pagine fa interrogare su un passato che vorremmo tutti rinnegare.




Wlodek Goldkorn è da molto tempo una voce conosciuta della cultura italiana ed ha intervistato grandi artisti, scrittori e premi Nobel. Ultima Voce lo porta dall’altro lato del microfono: per la prima volta, Goldkorn ha voluto raccontare la sua storia personale e noi abbiamo voluto conoscere meglio i motivi che l’hanno portato a prendere questa scelta. Chiedendogli anche una sua personale opinione su questi nostri tempi, che talvolta paiono aver dimenticato la lezione del secolo scorso.

Il Bambino nella Neve: perché proprio ora? Come mai ha scelto di riportare la sua storia e di pubblicarla l’anno scorso?

Ci sono due motivi: il motivo principale è che l’editore, Feltrinelli, mi aveva chiesto se c’era qualche storia che volevo raccontare; ci siamo incontrati, per caso, ed io gli ho proposto questa idea e insieme abbiamo deciso che poteva funzionare.
Il motivo secondario, quello non immediato se così vogliamo definirlo, (poiché è una storia che potevo anche scrivere due anni prima o due anni dopo, ma come spirito di libro richiedeva una determinata età) è perché sono diventato nonno e mi sono posto il problema della trasmissione della memoria. Io penso che la memoria, in particolar modo questo tipo di memoria, debba essere trasmessa saltando una generazione: dai nonni ai nipotini. Le memorie più intime e dolorose necessitano di questo salto generazionale, a parer mio.
Immagino non sia stato facile per lei raccontare la sua storia.
Io credo che scrivere un libro di qualsiasi genere sia sempre duro emotivamente, soprattutto se il libro in questione è “vero” e va a scavare nel subconscio. Credo che anche scrivere un romanzo inventato porti le sue enormi difficoltà emotive. Si tratta sempre di un lavoro non facile.
 Cosa deve rimanere davvero, secondo lei, di Auschwitz?
Sicuramente deve rimanerne la memoria. Ora, parlando di memoria, tutto dipende sempre da come la intendiamo e come la relazioniamo al futuro. Io penso che la memoria, nel momento in cui non ci saranno più testimoni, potrà vivere (e deve vivere) principalmente nelle elaborazioni artistiche e letterarie, nelle prese di posizione filosofiche o esistenziali. Questa è la memoria, non certamente qualcosa di unificato.
La memoria è diversa dalla storia: quest’ultima lavora sulle fonti e cerca di stabilire i fatti, mentre la memoria può solo affidarsi a strumenti come l’immaginazione.
 Una riflessione sulla situazione attuale in Italia: perchè secondo lei siamo ancora tutti alla ricerca di un fantomatico capro espiatorio?
Secondo me è una situazione generale del mondo occidentale e non riguarda solo l’Italia: basti pensare alla Francia, dove per fortuna è stata sconfitta Le Pen, ma la situazione non è molto diversa; o in Polonia ed Ungheria. Stiamo vivendo una forte e grave crisi generale. Innanzitutto una crisi economica che, pare stia finendo ma non ne sono poi così sicuro e che pare duri da più di otto anni; crisi durante la quale il capitalismo, come non lo avevamo mai conosciuto in occidente, si sta trasformando molto velocemente. Nel senso che, oggi, con un click sul computer, una speculazione underdata, chiunque è in grado di fare più soldi di quanti ne avrebbero potuti fare tre generazioni di imprenditori.
Tutto ciò si traduce in qualcosa di molto semplice, ossia che tutto è adesso di brevissima durata: i nostri politici e le loro dichiarazioni, come anche i manager di una azienda. In una situazione del genere, dove non c’è più aderenza tra territorio e azienda, poiché questa può essere dislocata in qualsiasi momento, saltano anche i nessi tra causa ed effetto. In questa situazione di così grave smarrimento si cerca di semplificare e  questo si traduce nel dare la colpa a qualcun altro. E la cosa più terribile di tutto questo (e può perfino peggiorare) è che il ragionamento razionale non arriva alla coscienza delle persone: io posso fino a domani, argomentare cifre alla mano, che i profughi non costano tantissimo, ad esempio, ma tutte queste argomentazioni verranno comunque rimosse da una propaganda che cerca di creare odio in una crisi già abbastanza grave.
La cosa più importante, quando parliamo di memoria, è invece ricordarsi che le cose più terribili che sono successe cominciano proprio con lo scegliere una categoria di persone come la colpevole dei nostri guai: non è così. Bisogna saper ragionare razionalmente e in modo più complesso. Il problema è che, finché non vi saranno forze che vogliano assumersi tale compito, quest’ultimo sarà sempre molto difficile da portare a termine.
Rimanendo sempre in tema, è paradossale che dall’altro lato il terrorismo e le guerre ci sembrino oggi quasi normali. A cosa è dovuto questo, secondo lei?
Il discorso rimane quello di prima: in una situazione di crisi abbiamo bisogno di un capro espiatorio, come possono essere ad esempio gli immigrati. Ora, vorrei dire una cosa un po’ di destra, se possibile, anzi due:

l’una è che non è scontato che la gente voglia ricevere altre persone. Se arrivano persone che, per i più svariati motivi (cultura e lingua, ad esempio), non avvertiamo subito come nostri pari, fratelli e vicini, non è facile. Però, in una società normale, in tempi altrettanto normali, esistono dei mediatori culturali che rendono più facile il passaggio dell’accettazione. Questo, in qualche modo, è mancato.

L’altra cosa un po’ di destra che volevo dire è che, molto spesso la sinistra e le persone di buona volontà confondono due momenti ben diversi: uno è l’accoglienza e l’altro è l’integrazione. La prima è evidente ed automatica: chi è in pericolo di vita verrà accolto, fine; senza chiedere identità e motivi del pericolo. L’integrazione non è invece così scontata: non è sbagliato pensare che la persona che voglia venire qui debba assumere determinati linguaggi. Non dico valori, ma linguaggi: deve sapere chi è Dante, Michelangelo…

Come se noi italiani sapessimo tutti queste cose…

[Ride] Certo che gli analfabeti italiani sono un problema ben maggiore rispetto ai profughi: sono un costo sociale nettamente maggiore rispetto a tutti i rifugiati che arriveranno qui.

Detto questo, io ero a livello degli ideali. Così come le donne non possono disporre liberamente del proprio corpo, tanto che vengono ancora ammazzate e violentate. Anche dagli italiani. Pare evidente che non hanno raggiunto l’uguaglianza né il diritto di disporre del proprio corpo, che sarebbe la cosa più importante, in quanto fondamento di qualsiasi società.
Però, nessuno di noi qui, dice che è giusto così, tranne qualche idiota fascista.

Vorrei che chi viene qui a vivere debba avere automaticamente la stessa idea, magari poi nella prassi non perfettamente, ma che sotto questo punto di vista, questo linguaggio sì: poiché ritengo che vada in qualche modo preservato. In questo senso, scherzando dico che è un ragionamento di destra. Bisogna anche rendersi conto che chi arriva qui, spinto dalla fame o dalle guerre (trovo ipocrita la distinzione tra profughi economici e profughi di guerra), non è necessariamente una persona buona. Né arriva, necessariamente, con buone intenzioni. Quindi, quel minimo di dialogo per spiegare loro i comportamenti adeguati, andrebbe fatto.

Dirò ora una cosa di sinistra: penso, d’altro lato, alla fake news della bambina inglese cristiana adottata dalla famiglia musulmana [

http://www.ultimavoce.it/bufala-del-times-la-verita-mistrattata-della-bambina-affidata-musulmani/

]. Quasi tutti i giornali hanno dato per scontato che la cultura normale sia quella cristiana. Pensiamo al contrario: una bimba musulmana messa in una famiglia cristiana che le spiega che Gesù era il messia risorto e che Maometto non era un profeta, non susciterebbe lo stesso scandalo.

Sono questioni molto delicate e viviamo in un periodo in cui è difficile affrontarle.

Isabella Rosa Pivot

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