Sei giorni fa, il senatore di Forza Italia Gasparri ha rivolto delle accuse pesanti ad Andrea Iacomini, portavoce Italia UNICEF e a quest’ultima in generale: “Un sedicente rappresentante dell’Unicef si è recato a Capalbio, la nota Atene dei progressisti de noartri, per lanciare appelli contro i populisti. È gente inqualificabile. Vadano in Africa ad assistere i bambini. Non a Capalbio a passare il ferragosto nel lusso. Anche l’Unicef ha molto da imparare”.
Sono solo alcune delle accuse che l’organizzazione si ritrova ad affrontare quotidianamente, in un periodo storico così delicato per l’Italia, travolta da un’ondata migratoria, che non è in grado di gestire adeguatamente. La situazione economica, l’ignoranza e spesso i media, fomentano così un odio non razionale e coerente con i fatti. A difesa della realtà delle cose c’è la voce di Andrea Iacomini, che di catastrofi ne ha viste ed ha un quadro ampio e concreto delle difficoltà mondiali.
Ultima Voce ha deciso di intervistarlo, per conoscere i suoi pensieri su queste tematiche e meglio il suo lavoro, che lo ha portato ad avere esperienze di forte impatto.
Prima, però, conosciamo più da vicino una delle voci dei bambini più in difficoltà nel mondo.
Andrea Iacomini nasce a Roma l’11 gennaio 1974.
Diplomatosi presso la Scuola di giornalismo dell’Università “Tor Vergata” a Roma, Iacomini è giornalista professionista e nel 2006 diventa portavoce dell’Assessorato alle Politiche per l’infanzia e la famiglia del Comune di Roma.
Nel 2008 approda all’UNICEF Italia con il ruolo di Capo Ufficio Stampa e nel 2012 ne diventa Portavoce nazionale, incarico che ricopre ancor oggi.
Blogger e scrittore, Andrea Iacomini cura uno spazio di approfondimento su Huffington Post Italia ed è autore di numerosi editoriali e articoli su tematiche legate all’attualità e alla politica estera su numerose riviste e sui maggiori quotidiani nazionali.
Da anni conduce un’intensa attività sui media (interviste, articoli, approfondimenti sulle principali testate tv, radio, giornali, web) contro l’eccidio di bambini in Siria, in Iraq e Gaza. Sono tutti temi che lo vedono da sempre in prima linea con iniziative, missioni sul campo e mobilitazioni. Altre tematiche di speciale impegno sono state le campagne UNICEF per il contrasto alla malnutrizione infantile nel Sahel (#SahelNow), la campagna contro la mortalità infantile “Vogliamo Zero”, quella sulla siccità e la conseguente crisi alimentare nel Corno d’Africa e la campagna per la riforma della legge sulla cittadinanza e il diritto alla non discriminazione per i minori di origine straniera “IO come TU”.
Ha anche tenuto lezioni e seminari su tematiche relative ai diritti dell‘infanzia, allo sviluppo e alle emergenze umanitarie presso le Università di Firenze, Milano (Cattolica e Statale), Catania, Roma (La Sapienza, LUISS e Roma Tre), Teramo, Foggia, Bari, Benevento, Torino.
Iacomini è stato ospite d’onore, nel 2014, del Premio Luchetta-Hrovatin quale riconoscimento della sua intensa attività per i bambini siriani. A settembre dello stesso anno è stato insignito dalla Fondazione “Riccardo Tanturri” del “Premio Scanno” per la categoria “Valori”.
L’anno scorso ha pubblicato “Il giorno dopo“, edito da Ponte Sisto, che è al contempo romanzo di formazione e appassionata, nonché sofferta, denuncia dei disastri causati dai conflitti contemporanei. Un libro che Iacomini abbina ad uno spettacolo teatrale ed ai numerosi dibattiti soprattutto nelle scuole. Il giorno dopo riporta l’urgenza di contribuire a cambiare le cose, per poter dare un vero “giorno dopo”, una nuova speranza, in particolare ai bambini, che sono sempre le vere vittime, le più indifese d’ogni guerra.
* Il giorno dopo – Google Books *
“Il Giorno dopo”: quanto c’è di autobiografico?
Il libro ha una sua caratterizzazione autobiografica: lo è per un buon 90%.
L’intento era di quello di realizzare un libro diverso: sarebbe stato molto semplice raccontare la storia di un portavoce di un’organizzazione umanitaria, raccogliendo le storie delle tante persone e dei tanti bambini che ho incontrato nei miei viaggi in giro per il mondo, ma sarebbe stato un esercizio assolutamente simile a quello che fanno in tanti e, probabilmente, non si sarebbe colto il perché e il come di tutto quello che ho vissuto.La scelta autobiografica ha senso proprio perché volevo che le persone conoscessero un uomo, assolutamente normale, con una vita altrettanto normale, che ha fatto esperienze di tutti i tipi e che, durante il suo cammino, ha avuto modo di fare un’esperienza diversa, ossia quella dell’impegno umanitario. È un tentativo di far vedere, in maniera personale, quello che in realtà potrebbe succedere a chiunque: che da una vita normale si venga catapultati in un mondo per nulla normale. Voleva essere un po’ questo il senso del libro.
Punti spesso il dito contro il silenzio mediatico rivolto alla guerra in Yemen. Secondo te, perché tale omissione d’informazione pubblica?
In realtà, io non punto tanto il dito sui media in generale, silenti su questa guerra. Io punto il dito contro un meccanismo mediatico che, in qualche modo, si dimostra altalenante: inquadra, cioè, i fenomeni saltuariamente; a volte in periodi dell’anno in cui si parla meno di altre notizie; oppure, decide di occuparsi di alcune vicende quando sono ormai diventate catastrofi e tragedie… e non all’inizio, quando sono ancora delle questioni meno enormi, che cominciano solamente ad esserlo.
Quindi non mi riferisco solo allo Yemen. Basti pensare alla Siria: i primi anni si sottovalutava questo fenomeno, non lo si raccontava, salvo poi farlo diventare di fatto una guerra mondiale. Eppure noi abbiamo sempre denunciato la situazione fin dall’inizio, dal primo bambino che è stato ucciso.
Quello che vedo oggi è che, ancora una volta, i media non sono tanto silenti, ma piuttosto distratti rispetto ad avvenimenti che invece potrebbero assumere delle proporzioni immense; e che poi, probabilmente, ad un certo punto a loro riguardo si dirà: “oddio ma dove eravamo?”, “com’ è potuto accadere tutto ciò”, “ma come l’ abbiamo potuto consentire?!”… Non dobbiamo fare in modo che ciò avvenga: quando certe cose pensiamo che non ci riguardano, perché magari sono lontane, perché spesso agli italiani non interessano anche se si trattano di vite umane e di bambini che muoiono, dobbiamo renderci conto che poi, inevitabilmente, ci troveremo a doverle affrontare direttamente.
Quando capitano fenomeni come le grandi migrazioni, oppure fenomeni legati al terrorismo, o altri ancora di portata storica e/o climatica, ci troviamo impreparati, sbigottiti come se tutto questo non lo avessimo mai potuto prevedere. Il mio lavoro da portavoce deve essere proprio di quello di eliminare, come dice il Papa, “le periferie del mondo di cui non parla nessuno”, perché potrebbero invece diventare grande attualità e, soprattutto, ci aiutano a non avere paura, a comprendere i fenomeni. Informare nei giusti tempi, aiuterebbe gli spettatori a capire meglio fatti che, attualmente e purtroppo, arrivano improvvisamente, non venendo così compresi, ma solo vissuti male.
Una risposta a quelli che ancora dicono “aiutiamoli a casa loro”?
A questi rispondo con una battuta: le organizzazione umanitarie, come l’ UNICEF, lavorano “a casa loro” da sempre, ma voi non lo sapete.
Dal 1946, anno in cui siamo nati, ci occupiamo di paesi africani; paesi nei quali si muore, per malnutrizione, per servizi igienici scadenti, mancanza di ospedali e di strutture. Ci occupiamo di quei paesi da cui tanta di questa gente se ne va. ci occupiamo di carestia, di fame, di portare l’acqua.Quindi, quando sento qualcuno dire di “aiutarli a casa loro”, io gli domando: ma tu sai com’è “casa loro”?
Perché, nella maggior parte dei casi, la “casa loro” non c’è. Nella maggior parte dei casi, “casa loro” è distrutta dalle bombe, da guerre che sono continue e durano decenni. Per la maggior parte dei casi, “casa loro” è un luogo dove c’è una carestia: come quelle che accadono nel presente in Sudan, Nigeria, in alcune zone della Somalia o in Yemen dove, per fare un esempio, attualmente ci sono circa 500.000 casi sospetti di colera. Ecco, “la casa loro” è questa.Quella da cui si fugge, come in Nigeria, per andare verso l’India e poi imbarcarsi (appunto) per l’Italia, per salvarsi da una guerra tremenda. O come il Congo, perché anche lì persiste una guerra. “Casa loro”, spesso non sappiamo com’è.
E se “casa loro” fosse “casa nostra” probabilmente lo sapremmo benissimo.Se poi non lasciamo spiegare a queste persone cosa hanno lasciato, se non gli diamo dei nomi, dei cognomi; se non gli diamo un’identità… rimangono solamente dei migranti che arrivano qui a delinquere. Poi, dalle cronache quotidiane, scopriamo che sono i nostri, di mariti che ammazzano le loro mogli; che sono i nostri ragazzi che uccidono le fidanzate; i nostri uomini che fanno a pezzi le sorelle. Ci troviamo in un momento storico così delicato che pare che tutto sia colpa dei migranti.
“Aiutarli a casa loro” può invece essere letto in due modi secondo me.
Io posso rispondere: sì, aiutateci a migliorare le condizioni dei paesi in cui vivono… ma la premessa è la pace. Questa domanda andrebbe girata ai governi: perché a “casa loro” c’è ancora la guerra, ancora dopo tanti anni? E mi riferisco al Sudan, alla Siria, all’Iraq, alla condizione tremenda in cui versa la Libia. Perché in alcuni paesi si vive ancora in carestia; perché in Sierra Leone basta un’alluvione per devastare completamente un paese intero, quando è ormai da decenni che soffre di questo problema.La mia contro-risposta nonché contro-domanda è, che potrei anche rivolgere anche all’ex premier Renzi quando disse la medesima affermazione: ma tu, lo sai come si sta “a casa loro”?
Altra domanda provocatoria, questa volta riguardo l’accusa di Gasparri: “A Capalbio a passare il ferragosto nel lusso”. Come gli risponde?
Innanzitutto liberiamo il campo da quest’assurda falsa notizia, per cui noi che lavoriamo per le organizzazioni umanitarie delle Nazioni Unite, come l’UNICEF, viviamo nel lusso. Io, in maniera del tutto trasparente, inviterei Gasparri ad andare sul sito dell’ UNICEF e a visionare il nostro bilancio sociale: vi troverebbe dichiarati tutti gli stipendi.
Per quanto mi riguarda, io ho uno stipendio di un normale ragazzo che fa il giornalista e come tale sono inquadrato, a differenza di quello di Gasparri, che probabilmente è invece di portata ben più importante del mio.In secondo luogo, io a Capalbio non ero in vacanza, perché mi trovavo in ferie con la mia famiglia in una località distante, che si chiama La Giannella. Detto questo, mi sono recato a Capalbio perché c’è una bellissima installazione sulla tolleranza, parola che probabilmente dovremmo ricordare più spesso, e sono andato a rendervi omaggio, poiché reputo che il momento storico in cui viviamo sia un momento molto particolare: dove tutto quello che passa sembra colpa dei migranti o delle ONG, dove risulta necessario recuperare il senso della verità e della realtà, soprattutto nella narrazione, quella cioè che ci fa comprendere i fenomeni. Perché oggi, il pensiero dominante risulta essere quello per il quale le ONG sono taxi di mare, quello in cui, per lottare contro i trafficanti bisogna fermare chi le vite in mare le salva, oppure quello in cui il migrante è il nemico. Mi sono recato lì per dire agli italiani per bene, agli italiani tolleranti, di difendere la verità.
E di italiani così ce ne sono tantissimi. E lo posso dire perché, dopo la frase di Gasparri, ho ricevuto centinaia di migliaia di attestati di stima di solidarietà. Ciò che offende poi, non sono tanto le parole che ha detto, che nel dibattito politico ci possono anche stare. Anzi, mi verrebbe da dire che io non ho nemmeno bisogno di rispondere a una provocazione di questo tipo. Usare però la parola “sedicente”, rispetto ad un portavoce ufficiale dell’organizzazione UNICEF Italia, ecco questo sì, che è un po ridicolo.
Isabella Rosa Pivot