Si è concluso a Sharm-el Sheikh il COP 27, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Andrea Pesce, CEO di zeroCO2, è stato in Egitto, potendo assistere e partecipare attivamente ai dibattiti del COP.
Noi di Ultima Voce lo abbiamo incontrato e abbiamo avuto modo di parlare del COP 27, circondato da un alone di pessimismo e impotenza. Su YouTube l’intervista è disponibile e di seguito sono riportati alcuni estratti.
- Quest’anno il Cop 27 si è svolto a Sharm-el Sheikh e questa scelta è stata, per te, un fonte di resistenza alla partecipazione, a causa della situazione politica e dei diritti civili in Egitto. Che cosa ti ha spinto poi ad andare lì e partecipare in prima persona?
L’Egitto è stata una scelta terribile da parte delle Nazioni Unite perché i diritti umani non sono nell’agenda del governo, se non per calpestarli. Quotidianamente sono incarcerati e incarcerate uomini e donne in maniera ingiusta. Come si può portare il mondo politico, industriale e delle ONG a parlare di futuro e sostenibilità in un luogo che è la dimostrazione di tutto il contrario? Ho deciso di andare perché credo (o meglio credevo) che partecipare sia importante, bisogna prendere parte, bisogna sporcarsi le mani e raccontare. Ho avuto l’opportunità di tenere un panel alla COP e lì ho fatto una piccolariflessione su come si possa parlare in modo concreto di sviluppo sostenibile e di climate action o climate justice quando a pochi metri di distanza da dove eravamo non vengono rispettati i diritti umani.
- Ha suscitato molte polemiche la scelta di Coca-Cola come partner ufficiale del COP, oltre a questa sponsorizzazione, quali erano le incoerenze più significative?
Vedere bottiglie di Coca Cola, l’azienda più inquinante a livello mondiale, distribuite gratuitamente, mentre non c’era spazio per gli attivisti. Assistere alla distribuzione di pasti con carne e pesce come unica opzione quando è assodato che sono diete poco sostenibili, e l’assenza di pluralità di opzioni. Incoerente anche la scelta di un luogo come Sharm-el Sheikh e non una capitale, un luogo costruito per un turismo di massa che di sostenibile non ha nulla perché non lascia nient alle comunità del territorio. Un luogo dove bisognava spostarsi in taxi, c’erano i bus elettrici, ma come riportato da Amnesty l’app per i mezzi pubblici, sviluppata dal governo egiziano, monitorava e tracciava chi la utilizzava, è stata la COP più sorvegliata della storia. Un’altra incoerenza è stata la mancanza di rappresentanza delle comunità, nel mondo ci sono una pluralità di culture che non sono state rappresentate perché le comunità di paesi di economie periferiche non potevano permettersi il soggiorno a Sharm-el Sheik.
- I dibattiti avvenivano per lo più nei Side Events, e negli spazi del COP?
I side events sono eventi organizzati privatamente (ad esempio Da New York Times, World Economic Forum), ed erano probabilmente i più democratici, c’erano panel ed era possibile fare domande, intervenire. Erano i luoghi dove si è manifestata una pluralità di pensiero, dove c’era un confronto. Erano spazi privati, ma gratuiti. La COP è un luogo elitario, c’erano pochi attivisti, intimoriti, impauriti e con pochi spazi e poche opportunità. La prima azione vera è stata giovedì 17 novembre con un coro di protesta per la situazione dei diritti umani in Egitto, era il penultimo giorno.
- Quali erano i toni delle proteste degli attivisti alla COP 27?
Alla COP non è successo nulla, al di là dell’istituzionalizzazione del Lost and damage, non c’è stato niente. Anche dal punto di vista di attivismo e manifestazioni non c’è stato nulla. Ho visto due o tre persone che manifestavano o facevano cori, ma questo vuoto non è colpa degli attivisti, mancavano le condizioni minime: i luoghi, le possibilità di farsi sentire. C’erano attivisti sotto scorta ed è sbagliato per definizione, alcuni di loro mi hanno detto che non si sentivano tranquilli ad andare in stanza. Poi era stato disposto per loro uno spazio apposito: un posto triste, svilente, sotto al sole, lontano dai luoghi nevralgici. Lo spazio per l’attivismo era lontano e inutile e per questo alcuni sono entrati a manifestare nella COP.
- Hai definito questa COP “di transizione”, perché?
Dall’anno scorso, quando, a Glasgow, si è provato a prendere scelte coraggiose, gli analisti pensavano che non si potesse stressare nuovamente il contesto. C’è una guerra in corso, la guerra ha generato una crisi energetica e i paesi devono prendere scelte che vanno poco nella direzione degli obiettivi della COP. Forse non è stata nemmeno di transizione. Bisogna riconoscere però che è stato istituzionalizzato il loss and damage, il meccanismo per cui i paesi più ricchi, non i più inquinanti, pagano una tassa, una multa, che finisce ai paesi più poveri perché possano adattarsi dopo eventi climatici esterni. Non sorprende che questo tema sia stato tirato fuori alla COP 27 che si è svolta in Africa, il continente che più di tutti vive gli effetti della crisi climatica e che, per questo, punta sull’adattamento.
- Si è parlato molto di adattamento, lasciando meno spazio ai discorsi sulla rigenerazione ambientale o sulla mitigazione. Si sono mantenute le posizioni della precedente COP o ci sono state novità?
Nel documento finale si continua a far riferimento alla possibilità di mantenere l’innalzamento della temperatura terrestre a 1.5 gradi entro il 2050. Non è possibile: avremmo dovuto iniziare prima. Non si è parlato di mitigazione, quindi di riduzione di emissioni, carbon tax, si è parlato di adattamento. Quante COP di transizioni bisogna attendere prima che si possa assistere a una COP che cambi le cose facendoci fare un giro di boa importante? A questa COP manca il coraggio dalla parte di politica e degli stati.
- Qual è stata la posizione dell’Italia manifestata al COP 27?
La Meloni ha fatto i compiti a casa, facendo ciò che chiede l’Europa, 55% di emissioni in meno nel 2030 e carbon neutrality entro il 2050. Questo governo non ha cura per la transizione ecologica e per i temi di sostenibilità, non sono stati messi in agenda. L’Italia ha sistemi di energia elettrica rinnovabile in stallo per questioni burocratiche, in un contesto di crisi energetica non è accettabile. Bisognerebbe fare una task force per farla produrre. Energia e impianti sono già pronti, ma hanno previsto 7-10 anni per approvarli, non si riesce a essere efficaci e concreti perché nella complessità del tema c’è una molteplicità di variabili che non permettono ai governi di avere una posizione chiara: bisogna avere coraggio.
- Qual è invece la posizione degli altri paesi?
Interessante la proposta di Lula, che ha proposto di riunire paesi che hanno foreste tropicali al suo interno, Brasile, Indonesia, Repubblica Democratica del Congo, definita dagli analisti Opec per le foreste pluviali per creare un cartello di paesi che tutelino le foreste. Il tema è il seguente: le foreste sono un capitale per i paesi e non possiamo pensare dal nostro punto di vista privilegiato di imporre a paesi a economie fragili azioni senza che ci guadagnino nulla. Per questi paesi tagliare la foresta e farci altro vuol dire guadagnare, la comunità internazionale deve supportare questi paesi affinché queste foreste non vengano distrutte. Lula è il candidato a essere il leader mondiale per la crisi climatica. Gli Stati Uniti non pervenuti, tutti aspettavano il discorso di Biden dopo le elezioni del midterm, ma non ha fatto riferimento al loss and damage, meccanismo che avrebbe bisogno del denaro statunitense. C’è molta incoerenza tra i paesi, sarà una sfida complicata per i prossimi anni mettere gli interessi di tutti i paesi in accordo con quello di cui ha bisogno il pianeta.