Intervista a Michela Giachetta, autrice del libro “I mostri non esistono”

Michela Giachetta

Michela Giachetta, scrittrice e giornalista, ha deciso di indagare e scoprire quello che spesso viene definito come irrecuperabile e più facilmente solo da condannare, ossia il mondo degli uomini autori di violenza. L’autrice con il libro “I mostri non esistono. All’origine della violenza di genere”, pubblicato da Fandango Libri, ha cercato di immergersi completamente in questa realtà composta da abusi e maltrattamenti, mantenendo un occhio critico e oggettivo dall’inizio alla fine. Il suo è un viaggio all’interno dei CUAV, ossia i Centri per Uomini Autori di Violenza, ancora sconosciuti ai molti, rispetto ai CAV, Centri antiviolenza.

Ciao Michela, vorrei partire con una domanda che potrebbe sembrare abbastanza banale, ma che forse non lo è poi così tanto. Mi riusciresti a definire cosa significa per te il concetto di “violenza di genere”?

«La violenza di genere, che può essere declinata in varie modalità, come quella fisica, psicologica, e anche economica, è quella che colpisce una persona per il suo genere. Spesso, nella stragrande maggioranza dei casi, il tema riguarda le donne, perché all’origine della violenza di genere c’è un’idea ben precisa, di tradizioni anche non scritte, che fa riferimento a origini di stampo patriarcale e con la sopraffazione e il controllo. L’atto di violenza diventa quindi “ho perso il controllo”, ma non è così, piuttosto era “cercavo di riacquistare il controllo che pensavo di avere perso”. In alcuni casi, è anche difficile riconoscerla, perché gli schiaffi sono schiaffi, ma prima della violenza fisica ci sono solitamente dei comportamenti e insinuazioni riguardanti maggiormente la sfera psicologica. Se dovessi definirla oggi, la descriverei in maniera composita, con queste radici che non ci sono con altre tipologie di violenza o sono meno marcate. In poche parole, è la paura che possa accadere di nuovo. Nel libro, spesso parlo di escalation della violenza, sono proprio quei comportamenti che diamo per scontato, che sono forme di controllo se ci pensiamo razionalmente, ed è più facile pensarlo da esterne. Ha a che fare con un rapporto che nel libro definisco disfunzionale, ossia esistono delle dinamiche che sono disfunzionali all’interno della coppia. Mentre, spesso, all’esterno queste coppie funzionano, hanno comportamenti “normali”, con il loro lavoro e la loro vita sociale, ma poi nella coppia scatta questo meccanismo di controllo e di sopraffazione».

Mi ricollego a quanto hai appena detto, e ti chiedo come mai hai deciso di utilizzare la parola “mostri” nel titolo del tuo libro?

Michela spiega che, spesso, per questi tipi di comportamenti, nell’uso comune come nella stampa, le persone che commettono violenza vengono definite mostruose. Un termine che ricorre abitualmente, probabilmente in maniera scorretta, perché se definiamo una persona “mostro” andiamo a deresponsabilizzarla, le togliamo la responsabilità appunto del suo comportamento che è una scelta. Il mostro è alieno, l’altro da noi.

Il titolo era un richiamare all’uso corretto delle parole: non solo si deresponsabilizza l’uomo ma toglie a tutti noi anche la possibilità di riconoscere la violenza. Se il mostruoso è l’altro da noi, allora non ha niente a che fare con la nostra vita, con i nostri vicini, rendendo difficile tale riconoscimento. L’autrice stessa ribadisce che, nei diversi incontri all’interno dei CUAV da lei visitati, ha toccato con mano come queste persone non erano mostruose, ma persone assolutamente normali a livello fisico e non solo.

Mi racconta anche di un episodio che l’ha colpita particolarmente: c’era un papà che aveva commesso violenza nei confronti della moglie e di una delle due figlie, ed era un uomo che lei avrebbe potuto incontrare al parco, oppure per strada e scambiarci anche un dialogo normale, nonostante abbia poi subito una condanna ed è stato incarcerato. Un titolo che potrebbe sembrare provocatorio, ma in realtà parla della definizione corretta di persone che commettono violenza.


Michela ribadisce come questi comportamenti siano una scelta, infatti, nei CUAV ci sono dei percorsi che provano a fare emergere ciò, ripercorrendo, in alcuni Centri, a rallentatore ciò che è stato commesso, affinché il responsabile possa avere la consapevolezza di come si è comportato secondo per secondo. Gli uomini che frequentano questi CUAV, tendenzialmente, si sentono vittime del sistema, della donna che li ha denunciati e minimizzano.

Come si entra all’interno dei CUAV?

«Molto spesso, il Centro chiede all’uomo di fare la prima telefonata per dimostrare, almeno in questa prima fase, un interesse, la volontà di iniziare questo percorso. Oggi, però molte persone arrivano nei Centri per Uomini Autori di Violenza a causa della pena condizionale sospesa, per cui c’è il Codice Rosso, secondo cui molti uomini possono avere la pena sospesa solo se frequentano questi percorsi di recupero all’interno dei Centri. La motivazione all’inizio è per evitare il carcere, ma il lavoro degli operatori è appunto costruire questa motivazione nel corso del tempo. Ci sono anche persone che arrivano nei Centri per ammonimento da parte del questore, in questo caso non c’è un obbligo, infatti, all’uomo ammonito è consigliato di frequentare questi Centri. Oppure, giungono anche volontari, su consiglio o suggerimento della compagna. Di base, la motivazione non riguarda una vera e propria richiesta di cambiamento da parte loro, o di acquisire consapevolezza, in quanto si parte da un livello in cui si sentono vittime. Ciononostante, durante alcuni incontri, ho visto degli uomini che non solo hanno riconosciuto il loro comportamento ma hanno visto anche le conseguenze e gli effetti sull’altro. Non tutti gli uomini però finiscono il percorso nei CUAV, infatti, ci sono anche degli abbandoni. Percorsi che durano solitamente un anno, e la frequenza è settimanale o bisettimanale. Chi arriva alla fine del percorso però spesso cessa con la violenza fisica, che è il motivo per cui arrivano, il più delle volte, in questi Centri, visto che la violenza psicologica è più difficile da riconoscere e da frenare. Questi Centri sono appunto fondamentali per indagare l’origine della violenza, come dice il sottotitolo del mio libro».

Ti pongo una domanda che potrebbe sembrare provocatoria: nel tuo libro parli di uomini maltrattanti, ma pensi che si dia il “giusto peso” anche agli uomini maltrattati?

«Io credo, a livello più generale, che pur essendoci stati dei passi in avanti sul giusto peso della violenza ne abbiano già parlato molti giornali e la stampa. Se si parla però di spazio e peso, credo che non sia solo quello pubblico, ma sia anche quello all’interno delle scuole. Il giusto spazio in diversi ambiti credo che ancora oggi non ci sia a livello generale. Ovviamente, ci sono anche gli uomini maltrattati, esistono anche questi casi ma in una percentuale molto più bassa rispetto alle donne. Non ti saprei definire il “giusto peso”, penso però che essendo una tematica e un problema che riguarda maggiormente le donne, sia quasi scontato che si parli di più di loro. Ma sono anche fermamente convinta che il tema della violenza di genere è un concetto che riguarda tutti. Dare il “giusto spazio” vuol dire fare educazione e formazione su vari livelli e nelle diverse sedi, come nella stampa ma anche nelle scuole».

Nel libro, usi il termine “lacune” quando parli dei CUAV, mi potresti spiegare quali sono e le possibili soluzioni?

Michela preferisce parlare di criticità piuttosto che di lacune. Sicuramente, una delle più evidenti è quella del pregiudizio che c’è intorno a questi Centri. Infatti, se questi uomini vengono definiti erroneamente come mostri, il pensiero comune è quello di considerarli irrecuperabili. Perché perdere tempo, competenze e risorse con loro? Un’altra criticità è lo scarso monitoraggio. Alla fine del percorso, non in tutti i Centri c’è il follow-up, diventa così difficile capire se vengono commesse altre violenze, in un arco di tempo da definire, dopo la fine del percorso. Un altro tema e criticità è la difficoltà di sapere dove sono. Non solo sono poco conosciuti, ma sono anche anche difficili da raggiungere.

Nel libro, Michela mette sempre il numero di telefono e l’orario in cui poter contattare questi Centri. Manca ancora un elenco ufficiale in materia, ed è uno degli aspetti su cui si dovrebbe lavorare maggiormente. Per quanto riguarda il monitoraggio, servirebbero invece più risorse.

Ti andrebbe di raccontarmi una storia che hai sentito in uno dei CUAV che hai visitato e che ti ha colpito particolarmente?

«Non ho l’intervista o la storia di ogni singola persona, ma racconto il gruppo. In uno degli incontri presso il CIPM di Milano, Centro Italiano per la Promozione della Mediazione, un papà raccontava che in quel momento era “felice” perché aveva avuto un sconto della pena, potendo andare così ai domiciliari e sperava di vedere le figlie. Lui era stato in carcere per maltrattamento della moglie e di una delle due figlie, la storia di cui ho parlato prima, però in quel momento lì la sua speranza era esattamente quella. Non solo non aveva un aspetto da mostro, ma alla fine dell’incontro lui mi ha chiesto di non mettere il nome delle figlie. Ho percepito questa richiesta come una forma di tutela, nonostante il comportamento messo in atto e motivo per cui è stato incarcerato. Un aspetto che mi ha colpito degli operatori invece è proprio il loro ruolo, il fatto che serva empatia nell’affrontare queste storie e, soprattutto, mentre si lavora con questi uomini. Infatti, gli operatori sono solitamente in coppia».

La strada è ancora lunga?

Il lavoro di Michela si basa sul reportage e sull’inchiesta all’interno di questi Centri. La strada è ancora lunga, anzi lunghissima, e crede fortemente nel lavoro di rete. Dove è possibile bisognerebbe costruire un lavoro di rete che coinvolga tutti i soggetti. In alcuni casi, questa rete è già presente ma Michela ricorda come alcuni CUAV non siano ancora inseriti. Mentre si costruisce questa rete, bisogna partire dalla prevenzione. Quando si parla appunto di contrasto ci sono i due livelli: uno è fermare la violenza che esiste già ma anche prevenirla. Bisogna quindi lavorare su due fronti. Prevenzione significa anche educazione, soprattutto educazione alle emozioni e al loro riconoscimento.

 

 

In questa intervista, Michela ha ribadito l’importanza della violenza di genere, soprattutto la difficoltà nel capire e riconoscere le radici alla base. Guardare in faccia alla realtà è veramente complesso, così come rendersi conto che gli uomini autori di violenza sono persone normali, non sono mostri, anzi potrebbero essere i nostri vicini o i nostri amici. Tutti dovrebbero partecipare a questi gruppi d’incontro all’interno dei CUAV, magari qualcuno si rispecchierebbe in questi comportamenti.

 

 

 

 

Patricia Iori

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