Intervista a Mauro Palma: il tempo “vuoto” delle carceri italiane

Mauro Palma

Mauro Palma

Mauro Palma, Garante dei diritti dei detenuti, parla della situazione delle carceri italiane, luoghi di angoscia, suicidi e sovraffollamento.

Mauro Palma, presidente dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale dal 2016, ha presentato il rapporto sullo stato di salute delle carceri italiane e noi abbiamo deciso di intervistarlo. Per prima cosa, gli abbiamo chiesto quali fossero i dati più preoccupanti del rapporto presentato.

Mauro Palma spiega che spesso si parla di affollamento delle carceri, quindi anche dei pochi metri quadri destinati ai singoli detenuti. Sicuramente questo è uno dei problemi principali, ma preferisce da subito porre il focus su un’altra questione. L’affollamento sarebbe meno grave se le persone trascorressero del tempo che avesse significato fuori dalla cella. Il vero problema è la mancanza di attività costruttive fuori dalla stanza. Il tempo di qualità è ciò che manca principalmente.

 

Dal rapporto, sono tre i livelli di dati che vale la pena citare secondo Palma.

«Ci sono più di 4000 persone in carcere che scontano una pena, e non un residuo di pena, inferiore a 2 anni. Di questi, sono 1500 quelli con una pena inferiore a un anno. Che significato ha questa pena? Se il reato non era di questa enorme gravità, forse il carcere non era la misura migliore. Il carcere è una misura complessa, ci vuole tempo per conoscere una persona e organizzare un reinserimento sociale. Quando parliamo di 6 mesi, è solo tempo sottratto. Si tratta di un’interruzione di vita e non viene perseguita la finalità della rieducazione, presente all’articolo 27 della Costituzione. La persona viene riconsegnata alla società dopo un tempo inutile e con un stigma».




Il secondo punto sul quale Palma si sofferma è la fortissima selezione di classe presente. I detenuti provengono spesso da ambienti marginali, con scarsa istruzione. Invece di trovare delle risposte, trovano un completo disinteresse sociale.

«Sebbene siano 1400 gli studenti universitari in carcere, molti altri sono senza istruzione. Queste persone che provengono da ambienti deprivati sul piano sociale e culturale fanno si che, oltre alla popolazione immigrata, abbiamo 5000 detenuti non stranieri che non hanno adempiuto all’obbligo scolastico e 900 sono totalmente analfabeti. Prima di parlare di progetti io credo che il carcere dovrebbe far sì che le persone abbiano uno strumento per comprendere».

Il terzo dato preoccupante è quello dei suicidi in carcere. A luglio 2023 si contano già 33 suicidi, senza considerare il numero dei tentati suicidi o degli episodi di autolesionismo. Perché così tanti?

«L’idea di carcere che noi trasmettiamo è quella di un buco nero. Pensiamo alle espressioni come buttare la chiave o pena esemplare. Questa idea di carcere porta alla disperazione chi è più fragile. Moltissimi si suicidano nel primissimo periodo di detenzione perché si ha la sensazione di essere entrati in un mondo di disinteresse. Alcuni però, come una donna qualche giorno fa, lo fanno persino alla fine del percorso».

La situazione peggiora persino se si parla delle condizioni dei centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), conferma?

«Tutti gli elementi positivi si annullano nei Cpr. Qui si parla di un tempo totalmente vuoto per le persone che si stanno già misurando con un proprio fallimento, ovvero l’ipotesi di migrazione. I tempi di detenzione sono più brevi, parliamo di un paio di mesi, ma il degrado e il vuoto del tempo sono peggiori».

Ci sono differenze tra le varie regioni italiane sul trattamento dei detenuti?

«Ci sono dei luoghi dove c’è maggiore abbandono e mancano tantissimi direttori e comandanti. Un direttore che deve gestire tre istituti non può progettare nulla. Ci sono esperienze positive, come quella di Padova, ma accanto ce ne sono molte altre carenti».

Com’è la situazione delle carceri italiane rispetto a quella di altri paesi europei?

«Se consideriamo l’Europa “larga”, il carcere italiano è in una posizione intermedia. Se ci limitiamo ai paesi con democrazia consolidata, il carcere italiano allora soffre di alcuni elementi “punitivi”. Per esempio, a differenza di alcuni paesi, in Italia i detenuti non possono incontrare i loro partner in momenti e spazi di affettività. Noi di positivo rispetto agli altri abbiamo il rapporto con il volontariato e con l’esterno, basti pensare alle numerose associazioni che progettano. In Francia non entra nessuno in carcere. Come Paese abbiamo una scarsa capacità però di diffondere queste singole esperienze positive e farle diventare comuni su tutto il territorio».

Esiste la tortura nelle carceri italiane?

«La tortura, intesa come violenza finalizzata a ottenere qualcosa, l’abbiamo vista ampiamente a Genova venti anni fa, o a Santa Maria Capua Vetere qualche mese fa.  Parliamo di violenza imposta, non di reazione, è una violenza di tipo sistematico. Sono episodi gravissimi sul quale non bisogna sorvolare. Esiste una cultura di aggressività interna».

Parliamo in fine dei bambini in carcere con le loro madri. La proposta della legge Serracchiani che proponeva l’eliminazione dei nidi nelle sezioni femminili è stata ritirata, cosa ne pensa?

«I bambini in carcere questa mattina erano 17. Vanno distinte 3 possibilità. Ci sono le case famiglia protette che dovrebbero essere la prima soluzione, ma i comuni investono poco in queste in quanto c’è una collettività che non si vuole molto interessare del carcere. La seconda è quella degli ICAM, qui il personale non è in divisa, non ci sono sbarre alle porte e alle finestre, i bambini vanno al nido esterno e sono una soluzione intermedia presente solo in alcune città come a Milano, Venezia e Torino. La terza opzione è quella dei nidi all’interno del carcere e ad oggi sono soltanto tre».

Per concludere, quali possono essere le misure più urgenti affinché si possa garantire un carcere decente?

«Portare innanzitutto fuori dal carcere le pene brevissime (quelle fino a 2 o 3 anni), creando delle strutture di controllo e supporto meno estreme e più connesse al territorio. Poi, investire molto sulla conoscenza e sull’istruzione per comprendere il presente e l’esperienza di detenzione. Investire maggiormente sul supporto psicologico necessario per i detenuti ma anche per il personale. Dopo la pandemia la situazione è andata in burnout totale».

Le persone in Italia sotto il controllo penale sono 137.000. Per Palma la nostra è ormai una società del controllo che cerca di risolvere ogni contraddizione affidandola al penale, quando questo non dovrebbe essere che l’ultimo strumento possibile.

Giulia Sofia Fabiani

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