Diletta Bellotti è un’attivista romana di appena 24 anni che cerca di dare maggiore visibilità alle lotta dei braccianti. Laureata in Diritti umani e migrazione, ha sempre usato instagram come piattaforma privilegiata per il suo attivismo inizialmente concentrandosi su femminismo e postcolonalismo. Attualmente, oltre alla figura centrale di Aboubakar Soumahoro, è l’unica a concentrarsi sulla sporca origine del cibo made in italy. Attraverso il suo canale social ha raccontato il suo periodo di soggiorno nella baraccopoli di Borgo Mezzanone, dove ha vissuto per circa un mese a stretto contatto con i braccianti. Attualmente è impegnata in delle proteste che somigliano a delle vere e proprie performance artistiche in varie piazze d’Italia.
Perché la lotta per i diritti dei braccianti è diventata la tua lotta?
Ho sempre fatto un tipo di attivismo più vicino alla mia formazione. Quando parlavo con i braccianti africani di Borgo Mezzanone, dove ho vissuto per un mese, mi dicevano delle parole italiane che non conoscevo e che avevano a che fare con il lavoro della terra, di cui non sapevo niente. Lo sfruttamento del lavoro era una cosa che conoscevo meglio per quanto riguarda l’industria tessile e che “risolvevo” comprandomi vestiti usati ed ecosolidali. Per il cibo non c’è questa soluzione: da qualsiasi luogo provenga è sporco. Quando ho capito questo è iniziato tutto.
Dopo l’esperienza nell’insediamento informale di Borgo Mezzanone hai iniziato con una serie di proteste che somigliano a delle performance artistiche. Usi tre simboli – cibo, sangue e tricolore- uniti ad una frase “MADE IN ITALY IS MADE OF BLOOD”. Come nasce tutto questo?
Potevo scegliere varie strategie da seguire per rendere le proteste efficaci. All’inizio avevo pensato addirittura ad uno sciopero della fame, ma questo ha molto meno impatto sulle persone. Quando vuoi animare una lotta devi chiederti su quale sentimento vuoi fare leva e l’empatia è molto difficile da evocare e da gestire. Il problema era anche far in modo che tutti capissero . Non potevo usare parole come “exploited” o “caporalato” perché non tutti sanno cosa significano. I simboli quindi sono stati fondamentali. Se associ la bandiera italiana al cibo e al sangue la gente capisce che c’è qualcosa che fa schifo, quindi magari vuole sapere di cosa si tratta. La strategia è quella di ribaltare l’immagine sacra del made in italy e far leva sul disgusto.
Scorrendo il tuo profilo si possono vedere foto e video delle proteste. Quella che colpisce di più è quella di Napoli per il coinvolgimento dei bambini. Come si sono evolute nel corso del tempo le tue performance?
Ho iniziato a Venezia ed ho notato subito che quello che stavo facendo aveva un grande impatto visivo. Da lì in poi ogni città è andata meglio, ma sicuramente la protesta di Napoli è stata particolare. Prima di tutto per il territorio ostile: in Campania la gente conosce bene cos’è il caporalato, capivano cosa stavo facendo e spesso mi guardavano male. Anche i bambini che stavano giocando in piazza sapevano che esiste questo problema. Uno di loro, quando gli ho detto che stavo protestando per i contadini pagati poco, ha iniziato a raccontarmi aneddoti. Da un lato la protesta di Napoli è stata poco efficace, perché i bambini non mi hanno permesso di fare niente, però alla fine io faccio queste cose anche per questo. Mi interessa non solo informare ma anche avere un riscontro reale. In ogni città le persone con cui ho parlato mi hanno detto cose diverse.
Ti definisci “attivista per i diritti dei braccianti italiani e stranieri”. Trovare la congiunzione “e” tra queste due categorie, in questo periodo politico, è piuttosto raro. La gente sfruttata nei campi è di tutte le nazionalità, perché hai voluto specificare?
Ci ho pensato molto a questa cosa. Potevo anche parlare solo di braccianti in generale. Era fondamentale che la gente capisse che non si tratta di un fenomeno che interessa solo una nazionalità. Per esempio anche parlare di “stranieri” non ha un significato unico: possono essere europei, africani, asiatici, possono stare qui poco o molto tempo. Ma in realtà si tratta semplicemente di poveri. Uno può essere straniero ma vivere in Italia da milionario e stare serenissimo. I braccianti sono gente povera di tutte le nazionalità, che viene sfruttata per portare il cibo a basso prezzo nei supermercati.
Ci sono differenze tra i braccianti italiani e quelli stranieri?
In ogni posto agricolo c’è una grande specificità etnica. Il caporalato raggruppa i braccianti per etnie perché così sono più facili da controllare. Nella mia esperienza a Borgo Mezzanone quindi non ho visto molti italiani. In realtà però mi sono appassionata a questo tema dopo la morte della madre di un mio amico pugliese. Era una donna di 50 anni e lavorava nei campi. Gli ultimi dati che sono usciti mostrano che c’è quasi una maggioranza italiana tra i braccianti. La differenza è prima di tutto fisica: muoiono soprattutto le donne italiane. Tutti devono raccogliere cibo per 12 ore a 40 gradi, senza né acqua né pause, ma un giovane nigeriano alto due metri resisterà di più di una cinquantenne pugliese ,nonostante la violenza e lo sfruttamento siano inauditi per entrambi.
Hai vissuto a Borgo Mezzanone insieme a braccianti africani. Come ti hanno accolta in quanto donna bianca? Quali difficoltà hai incontrato e cosa ti ha più colpito dell’esperienza?
La cosa che mi ha colpito di più è il senso di comunità. Tutti si aiutano tra loro, ma dico sul serio. Quando sono andata via ho spiegato loro chi ero e cosa stavo facendo, prima non potevo per motivi di sicurezza. Quelli che tra di loro hanno i social mi seguono e mi aiutano tutt’oggi, mandandomi magari video e foto che nessuno può fare lì dentro. Nella loro cultura una volta che sei diventato amico/a lo sei per sempre. Avevo già fatto esperienze di volontariato in paesi esteri, ho potuto viaggiare molto e quindi a Borgo non ho dovuto decostruire il mio razzismo. Ero in una comunità subsahariana musulmana quindi un “ostacolo” è stato l’essere donna perché loro hanno un atteggiamento molto rispettoso.
Il 13 e il 15 luglio è arrivata notizia di alcuni braccianti africani presi a sassate mentre andavano a lavoro nei campi. L’area in cui è successo è molto vicina a Borgo Mezzanone. Mentre eri lì ti è capitato di assistere a fatti simili e quale potrebbe essere la causa delle aggressioni?
Tutto deriva da una lotta tra poveri e da una paura del povero, verso cui viene fomentato odio. Si tratta del risultato di una strategia politica. Pensiamo a Soumalia Sacko, l’attivista bracciante che è stato ucciso il 2 giugno scorso a San Ferdinando per cui ancora si aspetta giustizia. Sono semplicemente atti di violenza dati dalla coscienza di avere una forza rispetto all’altro. I braccianti sono terrorizzati. Penso che loro mi apprezzassero così tanto perché ero l’unica italiana a non averli truffati,aggrediti o ignorati. Uno dei miei amici più cari che vive nella baraccopoli di Borgo mi ha raccontato di come, appena arrivato in Italia dalla Germania, voleva chiedere ad un signore informazioni per prendere l’autobus e questo gli ha detto “non ho soldi da darti”. A lui è venuto da ridere perché neanche voleva i suoi soldi.
I grandi media sono colpevoli di aver ignorato molti casi di aggressione e uccisione di braccianti stranieri nel Sud Italia. Eppure si tratta di un tema connesso a quello della migrazione che riempe le pagine dei quotidiani. Perché questa situazione viene ignorata?
L’invisibilità dei braccianti viene dal fatto che sono lavoratori. Anche se sono migranti non sono interessanti perché lavorano come schiavi e sono importantissimi per l’economia italiana. Non saranno mai rimpatriati o cose del genere. Piuttosto vengono spostati da un posto all’altro per far vedere che la situazione si sta risolvendo. Il fatto che non si parli dello sfruttamento dei braccianti è un difetto di quella che dovrebbe essere la sinistra italiana e quindi occuparsi di queste questioni. Impostano il discorso migranti giustificandosi sul perché dobbiamo accoglierli. Dobbiamo accogliere migranti perché ce lo dicono le leggi. Il problema vero che bisogna affrontare è perché gli italiani vivono la presenza dello straniero come una minaccia: non c’è integrazione sociale. Ai grandi giornali non interessa. Volevano manipolare la mia storia su Borgo per renderla più appetibile al grande pubblico.
Fare attivismo politico a 24 anni non è comune. Coinvolgere altri giovani nella dimensione pubblica e nella lotta politica non è facile. Sembra che si tratti di una generazione divisa tra il disinteresse e l’incapacità di trovare un nuovo linguaggio con cui esporsi. Tu usi molto Instagram e quindi parli direttamente ai millennials. Come è stato da questo punto di vista il confronto con i tuoi coetanei?
Ho avuto un confronto valido con la generazione dei miei nonni e con alcuni dei miei coetanei, in entrambi i casi soprattutto con le donne. Questo è qualcosa su cui vale la pena riflettere: sia sullo stacco ideologico generazionale sia sulla presenza femminista nelle lotte politiche che possano essere definite valide. Ho trovato opposizione e indifferenza soprattutto dagli uomini e dai baby-boomers e dalla generazione x. Dall’altro lato, ho sentito la contrarietà e il disinteresse di quei coetanei che non hanno saputo riformare il loro linguaggio e che sono però anche quelli che di solito si occupano di queste lotte. Il mio scopo è quello di usare Instagram in modo che vari tipi di persone possano finire sulla mia pagina a leggere di caporalato, non solo chi è informato. Non punto alle persone già sensibilizzate sull’argomento, punto agli indifferenti e agli ignoranti. Mi è capitato di ricevere messaggi da ragazzi di estrema destra che dicevano di stimare il mio lavoro, “nonostante fossi una comunista”. Mi fa un po’ ridere che mi abbiano chiamata così. Questo però è potente. Sto facendo un lavoro abbastanza mainstream: da un lato questo rischia di superficializzare il problema, ma dall’altro la lotta arriva a tutti e da lì si può partire per educare ad alcune questioni. Anche il tipo di protesta che faccio è molto “millennials”: è pulita, ci sono pochi simboli. Sembra una performance artistica. Addirittura la polizia non si rende conto che sto facendo una protesta quando sono in piazza, questo significa che sto usando strumenti nuovi, che arrivano comunque ma in maniera diversa. Almeno spero.
Marika Moreschi