La notizia della scoperta dell’ennesimo esopianeta (cioè un pianeta che non fa parte del nostro sistema solare) ormai sarebbe ordinaria amministrazione, il cacciatore di pianeti per eccellenza, il telescopio spaziale Kepler della NASA, ne ha già scovati più di 3000 e continuano ad aumentare. Eppure l’annuncio è rimbalzato su tutti i media, il motivo è che questa scoperta comporta due novità, la più importante è certamente quella a cui ho dedicato il titolo dell’articolo, la metodologia usata per scovare il pianeta (a cui è stata assegnata la denominazione Kepler-90i) tra la montagna di dati raccolti da Kepler, cioè l’impiego dell’intelligenza artificiale in astronomia, questo è tanto vero che i due autori della scoperta Christopher Shallue e Andrew Vanderburg hanno scritto un articolo scientifico dal titolo inequivocabile Identifying exoplanets with deep learning: a five planet resonant chain around Kepler-80 and an eight planet around Kepler-90 che è stato accettato su The astronomical journal ma non è ancora stato pubblicato. L’altra notizia è che Kepler-90 diventa così il primo sistema planetario conosciuto che eguaglia il numero di pianeti del nostro.
Occorre dunque una precisazione su titoli pressappochisti che ho letto in giro: la notizia annunciata non è la scoperta di un nuovo sistema con otto pianeti, ma dell’ottavo pianeta in un sistema già conosciuto in cui ne contavamo sette.
Iniziamo dalla notizia meno importante (a mio modesto avviso) il punto non è tanto che il nostro Sistema Solare viene affiancato nel guinness dei primati dei sistemi con più pianeti, ma che è la conferma finale che non siamo così speciali, quando iniziammo a scoprire esopianeti trovammo dei giganti isolati che giravano attorno alla loro stella, sembrava che i sistemi planetari con tanti pianeti fossero una rarità, poi più recentemente abbiamo iniziato a scoprire sistemi planetari più simili al nostro, basti pensare all’ormai celeberrimo sistema Trappist. Questo scoprire che non siamo così speciali per qualcuno potrà essere una cattiva notizia, ma d’altro canto aumenta le speranze di scovare un giorno un pianeta simile al nostro che ospiti la vita.
Veniamo alla notizia più succulenta per l’avanzamento della ricerca, avrete sentito fare il nome di Google, questo è corretto, addirittura dei due autori della ricerca solo uno è un astronomo, vale a dire Vanderburg che lavora per l’Università di Austin e fa il post-dottorato alla NASA. L’altro, Christopher Shallue, è un ingegnere del software che lavora nel programma per l’intelligenza artificiale di Google. Uno degli approcci all’intelligenza artificiale è quello delle reti neurali, si tratta di sistemi che cercano di riprodurre le capacità di apprendimento del cervello umano, in parole più semplici tu non scrivi un programma che faccia svolgere al computer un compito, ma gli dai le basi da cui quello impara e poi è come se evolvesse e in parte si scrivesse da solo la programmazione per svolgere il compito. Questa tecnologia trova applicazione ideale laddove ci siano montagne di dati, in mezzo alle quali potrebbero trovarsi dei tesori nascosti che setacciare “a mano” si rivela un compito troppo oneroso da far svolgere agli uomini. Shallue avendo sentito che in astronomia, come in altri campi scientifici, i ricercatori si ritrovano inondati di dati provenienti dagli strumenti che scandagliano il cielo e che questo è in particolare vero per la missione Kepler, ha cercato in Google notizie su come trovare esopianeti attraverso grandi quantità di dati e ha maturato l’idea di applicare le reti neurali alla ricerca di esopianeti.
Da lì a contattare la NASA e suscitare l’interesse di un astronomo il passo è stato breve, prima hanno utilizzato 15 mila segnali che erano già stati controllati a mano per insegnare al sistema cosa è un pianeta e cosa non lo è, poi quando il sistema è diventato così bravo da indovinare nel 96% dei casi l’hanno messo al lavoro su 670 sistemi, conosciuti per avere più pianeti, pensando che probabilmente ce ne potessero essere altri che erano sfuggiti. Non credo serva ricordare come si individuano gli esopianeti ma lo faccio lo stesso, dalla variazione di luminosità quando passano di fronte alla propria stella, ecco perché ho usato il termine segnali, si osserva una variazione di luminosità in una stella e gli astronomi sono in grado di stabilire se è provocata dal passaggio di un pianeta oppure no, ora hanno insegnato a farlo a un sistema automatico, che non è perfetto, Shallue e Vanderberg hanno ottenuto anche diversi falsi positivi, ma è uno strumento per non perdere dati validi in mezzo a tutti quelli da cui siamo inondati.
Roberto Todini