Intelligenza artificiale e proprietà intellettuale: possiamo accusare una macchina di plagio?

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Nel corso dell’ultimo anno sono emerse numerose cause legali da parte di autori e artisti visivi verso le aziende proprietarie dei più importanti modelli generativi. Le accuse sono di aver fornito, senza il loro permesso, testi e immagini da loro prodotti per il training delle IA, così da poter creare prodotti “artistici” simili ai loro. E questo permette di chiederci se una macchina sia capace di avere uno stile, o persino di creare arte.

Intelligenza artificiale e proprietà intellettuale: possiamo accusare una macchina di plagio? – Non troppo tempo fa, non era inusuale pensare al discrimine fra uomo e macchina attraverso la creazione di opere d’arte.

Ora, le IA illustrano e scrivono. Non solo, se fornite dei giusti prompt e correttamente allenate, lo fanno pure abbastanza bene da avere i propri lavori rappresentati in gallerie d’arte, o pubblicati come romanzi sperimentali. Nello stato attuale delle cose, la definizione di senzienza risulta però decisamente fuorviante.

Questo, soprattutto, perché rubano. Nella causa legale indetta da Kelly McKernan e Sarah Anderson, artiste di fama mondiale nei confronti di alcune aziende proprietarie di modelli generativi, fra cui Stability AI, lo sviluppatore del famoso modello generativo Stable Diffusion, l’accusa degli artisti consiste infatti nella capacità dell’IA di creare sotto richiesta illustrazioni molto reminiscenti del loro stile.

Eppure, si può definire un oggetto artistico creato da un’IA e ispirato allo stile di un’altra persona un furto o un plagio, oppure si tratta di un riuso trasformativo, protetto dalle leggi internazionali di proprietà intellettuale? In tutto questo, potremmo mai chiamare il prodotto di una macchina “arte”?

L’artista nel mondo digitale

La figura dell’artista è stata soggetta a cambiamenti piuttosto drastici nel corso degli ultimi trent’anni. Dove da un lato il media digitale ha favorito il nascere di innumerevoli pubblicazioni indipendenti, webcomic e opere direttamente supportate dalla community grazie a siti come Kickstarter o Patreon, dall’altro non è mai stato così facile “rubare” il lavoro di un artista.

Si tratta di un – per così dire – furto di cui siamo tutti colpevoli: i wallpaper dei nostri computer o gli screen lock di chi sta ora leggendo provengono probabilmente da un’immagine scaricata in rete, creata da un artista di cui magari non sappiamo nemmeno il nome. E questo perché si tratta, essenzialmente, di un crimine senza vittime: qualunque file è infatti teoricamente una risorsa illimitata, disponibile a chiunque voglia e possa scaricarla.

Così la figura dell’artista – specialmente di materiale visivo – si è dovuta adattare alla nuova realtà del digitale, rendendo effettivamente gratuita la maggior parte della sua produzione, e strutturando invece i propri guadagni intorno alla creazione di lavori su commissione dell’utenza, sulla vendita di copie fisiche e di merchandise e, nel migliore dei casi, ottenendo proposte di collaborazione all’interno del mondo editoriale grazie alla visibilità ottenuta.

La descrizione di sopra presenta allora un settore del mercato estremamente competitivo e soggetto a un significativo livello di precarietà, dove l’artista che lavori in ambito digitale deve costantemente sforzarsi di mantenere alto il suo livello di engagement in modo da poter cavalcare l’onda dell’algoritmo di selezione dei contenuti finché possibile e ottenere più commissioni, più proposte, e così via.

Rubare lo stile: il conflitto fra artista, Intelligenza Artificiale e proprietà intellettuale

Dove i tratti appena descritti presentano un mondo lavorativo che appare forse desolante è altrettanto vero che, seppur la società contemporanea abbia causato una certa denigrazione della figura di artista emergente, esiste una costante richiesta di illustrazioni ad hoc, copertine per nuovi libri, testi scritti da ghostwriter per la nuova autobiografia dell’influencer del giorno. La società digitale vive di testi e di immagini, di loghi e brand identity.

Si capisce dunque che lo stile di un artista diventi, in un mercato simile, uno dei più importanti elementi su cui esso basi la sua figura lavorativa: lo stile costituisce la firma distintiva dell’auteur indipendente, in grado di distinguerlǝ nel mare smisurato dell’autopromozione.

Ma lo stile non è un qualcosa di tutelabile dalle leggi europee e statunitensi di copyright. Esse non proteggono le idee, solo la loro espressione. Un’immagine allora generata da Midjourney ritraente, ad esempio, una scena di Alla ricerca di Nemo nello stile di Salvador Dalí (con risultati da incubo) sarà allora discutibilmente un lavoro derivativo o un plagio autoriale, rientrando invece nella categoria offuscata di “uso trasformativo” dei suoi lavori.

Ecco allora come l’introduzione dei modelli generativi ha posto un nuovo non troppo metaforico bastone fra le ruote della sopravvivenza della figura artistica: nell’ottica del consumatore privo di considerazioni etiche o dell’azienda, che senso ha spendere dai cinquanta ai settanta dollari per una commissione che richiederà tempo e lavoro quando è possibile usare un’intelligenza artificiale, chiederle di replicare lo stile desiderato e ottenere nell’immediato un lavoro derivativo, sicuramente di inferiore qualità ma, in larghi termini, accettabile?

Cause legali su Intelligenza Artificiale e proprietà intellettuale, fra uso trasformativo e consenso autoriale

Nella causa legale indetta da Kelly McKernan e Sarah Andersen, rispettivamente illustratrice ed autrice del famosissimo webcomic Sarah’s Scribbles, le accuse volte alle aziende proprietarie dei software di generazione di immagini Stable Diffusion, Midjourney e Dream Up consistevano nell’aver usato senza consenso autoriale le loro immagini all’interno del training dataset dei modelli citati, permettendo così alle IA di replicare il loro stile.

Parte del Dataset, che come ricordiamo è essenzialmente la “memoria creativa” della macchina, è stato ottenuto facendo uso di LAION-5B, un database no-profit contenente oltre cinque miliardi di immagini provenienti dalla rete.

Tale impiego violerebbe le cosiddette “tre C”: le autrici non hanno fornito il loro consenso ad avere il loro lavoro integrato nel dataset dei modelli, né sono state compensate o citate per esso.

Un’altra battaglia legale è quella fra Getty Images, il sito contenente migliaia di immagini acquistabili e disponibili gratuitamente con watermarke Stability AI, compagnia proprietaria di Stable Diffusion, in seguito alla produzione da parte dell’IA di immagini dove l’iconico watermark appare in maniera piuttosto evidente.

La difesa da parte delle compagnie rimane essenzialmente la stessa, ossia che i lavori generati rientrano in un uso trasformativo e non derivativo delle opere autoriali e che, in quanto tale, essi non possano essere soggetti alle leggi di tutela della proprietà intellettuale.

Una nuova battaglia fra opinione pubblica e artisti contro le compagnie su Intelligenza Artificiale e diritti d’autore

In quest’anno, le notizie sull’implementazione di modelli generativi da parte di editori e giornali sono state accolte (o meglio, non lo sono state) con rabbia e preoccupazione anche da parte del pubblico.

il titano dell’intrattenimento Buzzfeed ha annunciato all’inizio di quest’anno che i suoi quiz sarebbero stati d’ora in poi generati attraverso IA, e ha immesso poco dopo nel suo sito articoli creati attraverso l’uso di Large Language Models. La reazione è stata fortemente oppositiva, così come per la pubblicazione da parte dell’editore Bloomsbury di un romanzo di punta la cui copertina proveniva dallo stock di immagini create da IA di Adobe.



Nel corso del mese di ottobre sono inoltre sorte nuove possibilità di protezione (e allo stesso tempo di sabotaggio) delle opere artistiche attraverso un “avvelenamento” dei modelli di generazione: il Data Poisoning chiamato Nightshade (dalla pianta della Belladonna, nota per il suo uso nella creazione di veleni) e sviluppato per Stable Diffusion, permette alle immagini “rubate” di mascherarsi alle IA una volta processate, corrompendo così il loro allenamento e danneggiando la capacità di creare immagini basate su di esse.

Possiamo chiamare il lavoro di una macchina arte?

Le questioni di intelligenza artificiale e proprietà intellettuale conducono inevitabilmente alla considerazione di cosa sia un oggetto d’arte, e del se un’IA possa effettivamente essere considerata un “artista”.

L’oggetto artistico pertiene al campo degli studi umanistici. Nel nome stesso dello studio accademico vi è dunque uno dei più importanti capisaldi delle facoltà di beni culturali, lettere e studi giuridici: l’umanità intrinseca e sostanzialmente aliena alle cosiddette “scienze dure”.  Non di meno, l’arte è in sé qualcosa che sfugge da una definizione diretta e categorica: essa è rappresentazione storica ma allo stesso tempo espressione irriducibile del creatore, basata sul consenso del pubblico, quello della critica e del suo individuale osservatore.

Fu Italo Calvino, fra gli ultimi grandi autori della letteratura italiana contemporanea ad affermare nel 1967 con provocatoria tranquillità in Cibernetica e fantasmi della sua certezza sulla capacità da parte dei computer futuri di scrivere e creare “la letteratura”, in quanto processo intrinsecamente nato dalla ri-combinazione di materiale preesistente:

“…La vera macchina letteraria sarà quella che sentirà essa stessa il bisogno di produrre disordine ma come reazione a una sua precedente produzione di ordine (…) dato che gli sviluppi della cibernetica vertono sulle macchine capaci di apprendere, di cambiare il proprio programma, di sviluppare la propria sensibilità e i propri bisogni (…) nulla ci vieta di prevedere una macchina letteraria che a un certo punto senta l’insoddisfazione del proprio tradizionalismo e si metta a proporre nuovi modi d’intendere la scrittura, e a sconvolgere completamente i propri codici.”

Similmente, Kenneth Goldmith, professore all’università della Pennsylvania e autore del controverso Scrittura (non) creativa, propone di ridefinire del tutto i pilastri del concetto di arte alla base della creazione letteraria contemporanea come  autorialità, originalità e creatività, in nome di un’individualità adesso espressa dalla scelta di cosa “copiare e incollare” e come.

“Le opere di letteratura potrebbero funzionare nello stesso modo dei meme al giorno d’oggi sul web, diffondendosi come incendi per un brevissimo periodo, spesso senza autore né firma, solo per essere sostituiti dal prossimo. L’autore non morirà, ma noi potremmo cominciare a percepire l’autorevolezza in una maniera più concettuale: forse gli autori del futuro saranno coloro capaci di manipolare e distribuire pratiche di linguaggio (…) la poesia del futuro potrebbe essere scritta da macchine per altre macchine, ma per il futuro prevedibile ci sarà qualcuno dietro le scene a progettare i droni (…) e le grandi menti dietro ad essi saranno considerati i nostri grandi autori.”

Artisti, Intelligenza Artificiale e proprietà intellettuale: verso una ridefinizione di arte?

Una conclusione personale: discutendo con vari artisti e parlando del mio personale fascino verso la cultura digitale e le intelligenze generative, ho spesso incontrato una forte e strenua opposizione. Molti sono i validissimi punti che spero di aver affrontato all’interno dell’articolo, riguardanti questioni complesse e stratificate che vanno dall’utilizzo delle nuove tecnologie come oggetto di oppressione dei lavoratori a una vera e propria contestazione ideologica della macchina creativa.

Ciò che solitamente menziono in quei casi è, pur dandogli ragione, delle capacità innovative e creative degli strumenti: la letteratura e l’arte digitale presentano caratteristiche uniche e inedite, capaci di toccarci in maniera nuova. Così, l’utilizzo di Intelligenza Artificiale per la creazione artistica.

Si pensi ad Articulations, la geniale prosa poetica di Allison Parrish realizzata con IA. in cui citazioni di migliaia di autori sono organizzate foneticamente e sintatticamente per realizzare un nuovo testo di poesia, e dove l’autore diventa chi crea il codice o, sul territorio italiano, al bellissimo Non siamo mai stati sulla Terra di Rocco Tanica, edito per il Saggiatore, un esilarante testo in cui l’autore discute con GPT di Milano paradossali e storie senza capo né coda.

Il problema allora si palesa forse come uno di educazione allo strumento, all’uso banalizzante e superficiale dello stesso in ottiche di guadagno e imitazione senza comprendere quanto potenziale esso veramente abbia. E, allo stesso tempo, spinge a considerare la necessità di una ridefinizione di paradigmi ormai non più validi per il mondo in cui ci troviamo.

Roberto Pedotti

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