Integrazione sociale e lavoro: a quando il riscatto degli emarginati sociali?

integrazione sociale

Era il 2017 quando il Governo italiano approvava il Programma di azione biennale per la promozione dei diritti e dell’integrazione delle persone con disabilità; un passaggio fondamentale, sinonimo di pari opportunità – nei limiti del contesto – e di comprensione.
Diritto alla salute, occupazione, accessibilità e mobilità: elementi fondamentali, banali nella loro assunzione, ma concettualmente complessi.

L’integrazione sociale non è solo un “espediente” etico, ma il superamento di una barriera; l’argomentazione in ballo include, indiscriminatamente, categorie bistrattate da decenni per motivazioni disparate. L’ultimo report UE sul mercato del lavoro inclusivo  ci ha posti nuovamente nella condizione di considerare il mondo come un ingranaggio in continuo movimento; i mutamenti che ne scaturiscono delineano culture, interazioni tra individui, riscrivono la storia.

Il panorama dell’integrazione sociale resta un puzzle tuttora incompiuto, in primis per una difficoltà comunicativa; il linguaggio con cui idealizziamo alcune sfumature sociali, sfocia, puntualmente, nello stereotipo.
Partendo dalle categorie più “basilari”, incappiamo facilmente nella figura femminile:
la donna, ancora oggi, subisce una svalutazione quasi “istintiva”, una forma di “partito preso”; le problematiche non cambiano, dallo stipendio alla percentuale di occupazione (3 donne su 10 lavorano part-time, numero quattro volte superiore rispetto al dato maschile).




E se ancora la donna sgomita alla ricerca di credibilità, che ne è delle sfere sociali più gravose?
In particolare, espongo al lettore la problematica relativa a chi convive con un deficit cognitivo: oltre alla disabilità più nota, mi riferisco alla schizofrenia.
Ancora oggi, il pregiudizio sui malati di mente non cambia; torniamo sul dramma linguistico: il concetto del “matto” non presenta differenziazioni nella mente comune. Eppure…

Scavando un po’ più a fondo, scopriamo che Torino ospita interi complessi condominiali, in cui i malati psichiatrici vivono in comunità. Non tutti sapranno/ricorderanno ciò che attesta la legge Basaglia del 1978, con relativa chiusura dei manicomi.
La condivisione degli stessi spazi, di una quotidianità è per loro un grande traguardo; una vena di normalità tutt’altro che banale.

Non solo: a Perugia esiste un ristorante chiamato “Numero Zero”; il 50% dei suoi dipendenti è affetto da deficit cognitivo di vario tipo (dalla disabilità alla schizofrenia). Il ristorante promuove l’integrazione sociale, abbattendo lo stereotipo del “matto” con cui, concettualmente, conviviamo.
Un esempio che riporta la semplicità del cambiamento.

Eugenio Bianco

 

Exit mobile version