È allarme inquinamento da mascherine: ogni mese se ne gettano via tra i 126 e i 194 miliardi in tutto il mondo. È questa la cifra stimata da Save The Reef, associazione che combatte per la difesa degli ecosistemi marini. Il problema è che molte di queste mascherine finiscono in mare con i rifiuti di plastica. «Presto correremo il rischio di trovare più mascherine che meduse nel Mediterraneo» aveva avvisato a maggio l’ONG francese Opération Mer Propre. «Non smaltire correttamente anche solo l’1% delle mascherine significherebbe disperderne nell’ambiente 10 milioni al mese».
Lo smaltimento corretto dei dispositivi di protezione individuali (DPI) è l’unica soluzione per arginare i danni dell’inquinamento da mascherine.
Evitare di buttare per terra le mascherine usate è fondamentale, ma lo è anche la gestione generale delle procedure di riciclo dei DPI. La prima difficoltà è dovuta ai materiali che le compongono. Ogni mascherina chirurgica usa e getta ha tre componenti: la fascia di tessuto non tessuto, gli elastici e le barrette metalliche o di plastica) da stringere sul naso. Il tessuto non tessuto (TNT) è composto da polipropilene, un polimero termoplastico. Per realizzare una mascherina efficace occorre sovrapporre tre strati di TNT. Lo strato centrale, il più importante, funge da filtro.
Per evitare i danni da inquinamento da mascherine e la loro dispersione nell’ambiente, i DPI dovrebbero finire nell’inceneritore, o meglio ancora nel termovalorizzatore.
Il termovalorizzatore permette di ottenere energia dalla combustione dei rifiuti. In Italia sono 56 e si trovano tutti al Nord. Nel resto della penisola prevalgono i vecchi modelli o, peggio, le discariche. Sono loro ad avere il maggior impatto ambientale, dovuto a emissioni di gas serra e sostanze tossiche. Certo, anche il termovalorizzatore rilascia rifiuti sotto forma di scarti e polveri sottili. Tuttavia, finché non raggiungeremo una quota rifiuti zero, ciò sarà inevitabile. La soluzione è sempre la solita: fare bene la raccolta differenziata.
Per quanto riguarda lo smaltimento delle mascherine, in Italia il numero di inceneritori e termovalorizzatori potrebbe non bastare. Secondo Assoambiente, il rischio è che un gran numero di rifiuti (e di mascherine) siano conferiti alle discariche. Il che è un problema, considerando che una singola mascherina impiega non meno di 450 anni per decomporsi.
Quindi differenziare potrebbe non essere sufficiente? Forse. Ma non è un buon motivo per non farlo, se vogliamo limitare i danni da inquinamento da mascherine.
Differenziare, dunque, ma non solo. Sono ormai molte le soluzioni alternative alle mascherine usa e getta. Ci sono le mascherine riutilizzabili certificate, come quelle della startup siciliana iMask. Alcune aziende hanno iniziato a produrre mascherine biodegradabili. L’azienda francese Plaxtil è invece tra le poche ad aver deciso di riciclare le mascherine usate. Queste vengono messe in “quarantena”, disinfettate e poi macinate: con la pasta ottenuta si realizzano piccoli oggetti in plastica.
Una buona soluzione, insomma, ma ancora poco praticata. Per evitare i danni dell’inquinamento da mascherine non ci resta che continuare con la differenziata. In caso contrario, le conseguenze della pandemia da Covid-19 potrebbero essere devastanti non solo per noi, ma per l’intero ecosistema.
Rachele Colasanti