Informazione digitale e viralità

come la diffusione sui social media della lettera di Bin Laden ha intaccato la responsabilità editoriale

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Questa settimana la lettera rivolta al popolo americano firmata da Bin Laden ha ripreso a circolare in maniera virale sui social media, in special modo TikTok, reinterpretata nell’ottica degli eventi attuali. La viralità del fenomeno ha velocemente causato da parte di testate come The Guardian la rimozione dell’articolo contenente la traduzione integrale della lettera, e il Ban dei video contenenti determinati hashtag.

Informazione digitale e viralità: come la società dei social media intacca la realtà editoriale –  Viralità: una delle parole chiave della rete, alla base del successo di individui e contenuti così come di scandali e atrocità pubblicate e riproposte all’infinito online. E per questo, qualunque regola, rimozione, imposizione sul contenuto digitale non può che essere applicata reattivamente, arrivando sempre – per così dire – troppo tardi. Così è stato per il caso della lettera di Osama Bin Laden, diffusa su TikTok e velocemente divenuta virale per via del contenuto fortemente critico nei confronti del lobbismo statunitense e dell’alleanza fra USA ed Israele.

La viralità della lettera è dovuta alla sua facile reinterpretazione in relazione al conflitto israelo-palestinese ora in atto, e ha fatto sì che la testata The Guardian rimuovesse il suo articolo del 2002 contenente la lettera tradotta integralmente, sostituendola con un disclaimer in cui la redazione afferma il testo sia stato preso e riproposto in maniera decontestualizzante.

Risulta allora, in questo marasma contenutistico, particolarmente affascinante osservare come il mondo deframmentato dei social media e della loro “democraticità” sia in grado, fra le altre cose, di smuovere un pubblico a volte maggiore di quello dei grandi giornali, e di condizionare gli stessi a compiere scelte drastiche in nome di una responsabilità editoriale sempre meno chiara.

La lettera di Bin Laden su TikTok, in un marasma di informazione digitale e viralità

Tiktok ha recentemente bandito gli hashtag collegati ai video dove cittadini del popolo statunitense discutevano dell’aver appena letto la lettera scritta da Osama Bin Laden in seguito agli eventi del’11 settembre 2001. Nella lettera, che riportiamo qua per intero tradotta in lingua inglese, il deceduto leader di Al Qaeda condanna le dinamiche intrinseche di lobbismo nella politica statunitense, giustificando gli atti terroristici nel nome di una difesa asserita come legittima, usando come esempio le politiche dell’alleanza USA-Israele nei confronti della Palestina e del Libano.

La  lettera si legge come un messaggio calmo dai toni propagandistici, rappresentativa degli obiettivi di Al Qaeda, e del tutto incapace di contenere e contestualizzare l’insieme di complessi meccanismi sociopolitici che hanno preso luogo nei territori medio orientali nel corso dell’ultimo secolo.



Nei video salvati dalla rimozione del social media e ripubblicati su X, si osservano dinamiche quantomeno interessanti: chi si riprende afferma che la lettera sia stata in grado di permettergli di riconsiderare quella serie di fenomeni incapsulati nella “guerra al terrore” intrapresa dagli USA dal 2002 fino, all’incirca, al 2021. Alcuni dei giovani, a volte nati dopo l’attacco alle Torri Gemelle, hanno persino adottato una presa di posizione opposta, affermando che “He (Bin laden, ndr) was right“.

Ma nel testo, oltre a ricordare da chi fu scritto, a commenti che descrivono un’effettiva situazione di incontrollato capitalismo e di quasi un secolo di imperialismo americano sui territori medio orientali sono affiancate opinioni di efferata violenza, giustificanti l’eccidio di oltre 3000 innocenti durante l’attacco alle Torri Gemelle in nome di una “giusta difesa” e note fortemente antisemitiche, non troppo dissimili dalle teorie promosse da vari movimenti complottisti, prima fra tutte l’idea del “devastante controllo in tutte le sue diverse forme di come gli ebrei abbiano preso controllo dei vostri (dei cittadini statunitensi, ndr) media, e ora controllino ogni aspetto della vostra vita, rendendovi così loro schiavi”.

Tendenze aforistiche, informazioni brevi, sfiducia nell’informazione

Viene da chiedersi perché la lettera abbia allora preso così velocemente trazione una volta ripubblicata. Le risposte sono multiple, e hanno a che fare con una serie di procedimenti tipici della cultura digitale.

In primis, la sua struttura “funziona bene” per il pubblico di oggi. La società e l’informazione digitale vivono di messaggi semplici, reiterati e brevissimi (una realtà redazionale a cui il sempre pressante SEO riporta anche noi di Ultima Voce). Fra le conseguenze di ciò, il bisogno nel mondo digitale di prese di posizione aut-aut, anche quando non informati (ricordiamo il prima menzionato “he was right.”). 

La lettera, che si premette di rispondere a varie domande affrontandole punto per punto, in maniera non dissimile da una declamazione, permette la rielaborazione aforistica tipica dei social network, ignorando (o tagliando) le sezioni meno comode.

Altro dato importante è quello proveniente dal rapporto conflittuale che emerge fra pubblico e informazione mediatica e mediata: all’interno dei video citati, i giovani affermano in più di un’occasione non solo di non aver mai letto le parole di Bin Laden, ma di non aver mai saputo della loro esistenza fino ad ora, come se gli fosse stata tenuta nascosta, nonostante sia liberamente disponibile online a distanza di una ricerca su Google da più di vent’anni.

Altrettanto vero però è che la cultura statunitense (e, parzialmente, europea) è stata fortemente condizionata a una visione della guerra al terrore altamente stereotipica e pienamente incarnata dal messaggio statunitense di “esportazione della democrazia”. Una realtà dove internet era ancora agli albori, e dove un attacco terroristico proveniente dall’altro antipodo del pianeta poteva essere (ed era) rappresentato come del tutto immotivato.

Ma il mondo digitale, nel bene e nel male, accorcia le distanze, e mai conflitti come quello israelo-palestinese ci sono stati tanto vicini, mai come adesso le contraddizioni del sistema occidentale appaiono lampanti, pure all’interno di sistemi progettati per mantenere un controllo sulle informazioni in circolo.

Viene da sé allora lo sgretolamento della fiducia da parte dei lettori verso i giornali. Una lama a doppio taglio, che conduce da un lato alla ricerca di un’informazione libera e sfaccettata, e dall’altro alla mala informazione, alle Fake News, al complottismo radicato, all’assurda riesumazione di un uomo colpevole di crimini contro l’umanità.

La “democraticità” dell’informazione digitale e viralità delle news. Internet (non) ci rende liberi

Risulta allora quantomai curiosa la scelta di The Guardian di rimuovere l’articolo contenente la lettera di Bin Laden tradotta nel timore di una decontestualizzazione del messaggio, preferendo invece reindirizzare a un articolo di The Observer: l’azione è infatti stata velocemente definita come un atto di censura da parte dell’utenza di TikTok, così come la scelta della piattaforma di rimuovere i contenuti in cui se ne discuteva.

L’influenza che i social media esercitano sull’informazione tradizionale ha permesso quindi uno stravolgimento capace di creare un cortocircuito di responsabilità redazionale da parte di uno dei giornali di riferimento nel Regno Unito, che ha reputato come scelta più saggia quella di rimandare a un contesto da loro fornito (con tutti i crismi dell’informazione affidabile e responsabile, si tende a precisare) quando la critica volta insita nelle ingenue dichiarazioni dei TikToker era proprio di non fidarsi di esso.

A contribuire alla paradossalità del tutto, il fatto che il testo integrale sia ora decisamente più difficile da rintracciare in rete non fa che ostacolare un lettore interessato ad ottenere una visione di insieme. Non solo: una ricerca su Google otterrà fra i primi risultati una versione redatta della lettera, proveniente dall’ufficio della Naval Intelligence degli USA, dove alcune delle parti decisamente più contestabili non sono presenti (giusto per citare un esempio, assente nel sopra citato documento: “Ci appelliamo a voi di diventare uomini di principio, onore, purezza, di rigettare gli atti immorali di fornicazione, omosessualità, intossicazione, gioco d’azzardo”), alimentando dunque una rappresentazione sfalsata e parziale delle parole di Bin Laden.

Insomma, internet non è un forum libero e indiscriminato: se si era discusso precedentemente di come Meta avesse attuato shadowban nei confronti di chi diffondeva contenuti di matrice filopalestinese, la piattaforma di TikTok è stata invece contestata per aver attuato il procedimento opposto in un’ottica di guadagno, avendo constatato che la maggior parte della sua utenza tendeva a favorire post e video critici verso lo stato israeliano. 

Si aggiungano ad esso gli onnipresenti algoritmi di selezione del contenuto, volti a creare interazione e dunque a favorire la riproposizione di contenuti polarizzanti, e il panorama contemporaneo, pur nella grande potenzialità che esso offre, appare sempre più confuso.

Roberto Pedotti

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