I computer di oggi portano nomi di uomini, mentre l’informatica al femminile sembra relegata a una nicchia di ragazze forse un po’ strambe, forse geniali. Nella giornata dedicata a mamme, maestre, fidanzate, infermiere (e più di recente sindache e assessore), un tributo alle donne che – per quanto dimenticate – hanno fatto la storia dell’informatica e dei computer moderni.
Un’informatica: quanto spesso capita di pronunciare quest’espressione? Solitamente si parla de l’informatica, e ciò nonostante – nonostante di parola femminile si tratti – il più delle volte l’informatica si trova declinata al maschile: Steve Jobs, Bill Gates, Mark Zuckerberg, il padre di Linux Linus Torvalds, il pirata-capitano di BitTorrent Bram Cohen, e “i ragazzi” del MIT di Boston… I computer, oggi, portano nomi di uomini, mentre l’informatica al femminile sembra relegata a una nicchia di ragazze forse un po’ strambe, forse geniali. Nella giornata dedicata a mamme, maestre, fidanzate, infermiere (e più di recente sindache e assessore), un tributo alle donne che – per quanto dimenticate – hanno fatto la storia dell’informatica e dei computer moderni.
Oggi si tratta infatti di uno dei settori più maschilisti, più maschilizzati, e più disuguali nel mondo del lavoro e della ricerca: è vero, ad esempio, che oggi circa la metà (il 47,5% nel 2006) degli studenti del MIT (Massachusetts Institute of Technology) è donna, ma prendendo il caso degli Stati Uniti – dove si concentrano la maggior parte delle aziende di matematici e informatici – la quota delle lavoratrici è passata dal 27% degli anni Sessanta, al 35% dei Novanta, per poi iniziare a calare negli anni, fino a precipitare a un misero 26% nel 2013 (secondo dati federali).
È evidente come i computer moderni si esprimano in un linguaggio al maschile, ma furono soprattutto le donne a insegnar loro a parlare.
Ripercorrendo l’albero genealogico dei computer, agli albori dell’informatica al femminile troviamo il nome di Ada Lovelace: la prima donna che – già duecento anni fa – avrebbe potuto definirsi programmatrice di computer. Nel 1833 incontrò l’inventore Charles Babbage, insieme alla sua “macchina analitica”: una serie di ingranaggi metallici in grado di rispondere a istruzioni condizionali (cioè comandi if/then, se/allora) e d’immagazzinare informazioni in memoria. Quello di Babbage non era che un progetto, ma la Lovelace – al tempo matematica – ne capì le potenzialità, e decise di scrivere quello che da molti è considerato il primo programma della storia: un algoritmo che avrebbe fatto funzionare la macchina analitica, facendole eseguire una serie di calcoli (ricordiamo che compute in inglese significa calcolare). L’invenzione tuttavia, non venne alla luce, e la Lovelace – morta a 36 anni – non riuscì mai a vedere il suo programma in esecuzione.
Negli anni Quaranta finalmente i computer diventano realtà: e a scriverne i programmi sono proprio delle donne. A dispetto dello stigma che vede donne al computer esclusivamente da impiegate, oppure segretarie, sono le aziende stesse a cercare le prime programmatrici:servono menti pignole, eleganti e concise, che non usino mai una parola di troppo: esattamente lo stereotipo femminile di allora. Negli anni ’60 quindi, i dati governativi statunitensi segnano che le donne programmatrici sono un quarto del totale, e Mary Allen Wilkes è una di loro. Assunta dal MIT appena laureata, e senza alcuna esperienza (a quei tempi quasi nessuno ce l’aveva), sarà fra i genitori del Linc, uno dei primi personal computer interattivi al mondo; ma prima si trova ad affrontare l’Ibm 704, il quale non possiede né tastiera né schermo, e il programma va scritto a mano su carta. Queste “istruzioni”, tradotte poi in una serie di minuscoli buchi su scheda perforata, e inserite in un lettore, sono i primi comandi per stampante. Wilkes ricorda che per quanto al MIT, a occuparsi della programmazione, fossero soprattutto le donne, a quei tempi non si trattava di un lavoro prestigioso: ovviamente, c’erano già forme di sessismo – soprattutto in merito ai salari e alle promozioni – ma almeno esisteva un rispetto reciproco fra “nerd” – sia maschi che femmine – nei laboratori del MIT.
Il sessismo già c’era – soprattutto riguardo i salari e le promozioni – ma almeno esisteva una sorta di rispetto reciproco fra “nerd”.
Qualche chilometro più in là – in un istituto in Pennsylvania – è ancora una squadra femminile che si occupa di programmare l’ENIAC: l’Electronic Numerical Integrator And Computer pesa più di 30 tonnellate, contiene 17.468 valvole termoioniche, è progettato da uomini, ma a farlo funzionare sono delle donne: Marlyn Wescoff, Kathleen McNulty, Jean Jennings, Betty Smider… Il primo computer elettronico general purpose risponde ai comandi degli uomini, scritti però dalle donne.
Anche in seguito, quando i macchinari iniziano a evolversi, indispensabile è il contributo dell’informatica al femminile: gli stereotipi di genere – ragazze meticolose, precise, come nell’arte della tessitura o del lavoro a maglia – giocano in questo caso a favore delle donne che vogliono affermarsi nel settore.
A tal punto che – sgretolando le discriminazioni razziali – la giovane Arlene Gwendolyn, in Canada, diventa la prima donna di colore a coprire il ruolo di programmatrice.
“Al computer non interessava che fossi donna e nera.”
La realtà dell’informatica al femminile negli anni ’60 e ’70 rappresenta una delle poche possibilità per una donna di guadagnare bene: fino a ventimila dollari all’anno (che corrispondono a più di 150 mila oggi), secondo un articolo dedicato loro nel 1967 dalla rivista Cosmopolitan, e intitolato “Computer Girls”.
Quando finì quest’idillio?
Si dice che la fine dell’era delle programmatrici corrisponde con l’avvento dei personal computer: nuove macchine rare e costose – accessibili solo nei laboratori di ricerca e nelle grandi aziende – rendono le prima ricercatissime doti femminili di programmazione identiche a quelle di chiunque altro. In più, la nuova generazione di personal computer che arriva nelle case degli americani, il più delle volte finisce sulla scrivania del figlio maschio, piuttosto che della figlia femmina. E così, a partire dal 1984, le quote rosa dell’informatica iniziano a scemare, arrivando a un misero 15% di impiegate donne nell’industria tecnologica dei nostri giorni.
Alice Tarditi