In passato esistevano modelle e spot pubblicitari firmati dai grandi registi. Oggi il mondo dell’advertising è governato dalla figura dell’influencer, con squadre di make up artist, art director e stylist.
Secondo il vocabolario dell’influencer marketing (la branca del marketing appositamente nata per tentare di dare un’organizzazione al fenomeno) si tratta di persone particolarmente determinanti nell’influenza dell’opinione pubblica. Ideali quindi per indirizzare messaggi pubblicitari e veicolarli verso un pubblico più vasto. In sintesi: personaggi pubblici che, per motivi diversi, godono di un certo seguito e diventano modelli di vita a cui aspirare, attraverso l’utilizzo dei social.
Il “fenomeno influencer” è dilagante e, come ogni tendenza sociale che incide sulla struttura della collettività, crea un certo clamore. Fedeli seguaci e accaniti detrattori le tifoserie in questione.
In origine fu Chiara Ferragni, che con il suo The Blonde Salad aprì le porte ad un nuovo modo di essere leader d’opinione. Anche se di vere e proprie opinioni poi in realtà non si tratta. Piuttosto si notano abilità nell’accostamento di colori e nella scelta di capi costosissimi, già di per sé oggetto del desiderio di milioni di persone.
Il modello imprenditoriale targato influencer ha di certo i suoi meriti: nel caso della Ferragni è addirittura diventato un case history di Harvard. E non si discutono le doti manageriali dietro la creazione di un prodotto che conquista un target così vasto. La questione però verte soprattutto sul messaggio che si veicola, e che raggiunge milioni di giovanissimi senza filtri (o almeno senza quelli giusti). Ad oggetti di valore non corrispondono infatti, spesso, esempi di valore, condotte e talenti degni di essere presi come ispirazione o spunto per costruire qualcosa di significativo. Qualcosa che oltre ad essere osservato possa magari essere ascoltato, capito, pensato. L’estetica senza un contenuto smette di essere un valore e diventa qualcosa di così effimero da non poter essere valorizzato neanche da un paio di Louboutin.
Perché se il cattivo gusto nel vestire è perdonabile, avere modelli di riferimento che riferimenti non sono, non lo è. Scegliere è un diritto, e un dovere, che non dovremmo mai dimenticare di avere.
Emma Calvelli