Gli influencer e la guerra: esprimere un’opinione non è sempre obbligatorio

influencer e la guerra

L’invasione della Russia di appena due giorni fa ha travolto completamente i palinsesti dei social. Influencer e marchi hanno dovuto rivedere il loro piani editoriali per pubblicare contenuti che non risultassero quantomeno stridenti con le notizie del telegiornale.

 




Come ci aveva già abituato il ritorno dei Talebani alla guida dell’Afghanistan appena quest’estate, per tutti noi è un vezzo irrinunciabile quello di esprimere un’opinione sul conflitto, infilando, tra post sulla colazione e sul weekend alle terme qualche considerazione geopolitica. Una parola, che, per chi non lo sapesse, è il grimaldello della credibilità social  per chi vuole parlare di guerre e tensioni internazionali.

Sensibilizzazione o viralità?

Si può argomentare che influencer da centinaia di migliaia di follower possano sensibilizzare l’opinione pubblica molto più di quanto  riesca a fare un semisconosciuto giornalista sul campo a Kiev, ma quello che possiamo mettere in atto noi, come fruitori di questi contenuti apparentemente meno patinati del solito, è semplicemente proteggerci. Prendiamo per esempio la coppia formata da Chiara Ferragni e Fedez: per quanto possano essere animati dalle migliori intenzioni, quello che portano avanti tramite Instagram è, squisitamente, la gestione di un brand.

I trend topic di quest’anno

Anche le loro prese di posizione, dunque, hanno a che fare con ritorni in termini di capitale. Pagano aziende di consulenza per individuare i trend social dell’anno: per quest’ultimo periodo, ad esempio, cos’è che va forte? Femminismo ed empowerment femminile? Fluidità di genere? Cibi veg? Benissimo. Al lavoro dunque, con la linea di smalti lanciata fresca fresca lo scorso anno. Sotto con le felpe “Eat more veggies”, quando, fino a poco tempo fa, Ferragni non disdegnava il ruolo di testimonial per AIA. Anche tutto il carrozzone mediatico imbastito sul ddl Zan, spiace, ma non è altro che un riflesso di una precisa strategia di marketing: è un tema scottante, su cui la generazione Z ha un’idea ben chiara che non necessita di essere troppo approfondita per saltare sul carro.

Non solo Ferragnez

L’esempio dei Ferragnez, però, è puramente illustrativo. Lo è di un trend che va delineandosi sempre più e che esplode, letteralmente, quando ci sono eventi che portano grande emotività nell’opinione pubblica. Si chiama attivismo performativo ed è quel fenomeno per cui è molto più facile individuare gli hashtag e gli argomenti di punta per una certa generazione, che fare qualcosa in cui si crede o che si ritiene giusto, a prescindere dal marketing. Non sarebbe opportuno, infatti, né per Fedez né tantomeno per Ferragni prendere posizione su una tassa patrimoniale, visto che poi la fondatrice di The Blond Salad nel consiglio d’amministrazione di Tod’s deve andare a sedersi. Facile quindi sposare una lotta quando è monetizzabile.

Lo stesso è accaduto qualche tempo fa a Cristina Fogazzi con il simbolo di Black Lives Matter utilizzato per il packaging di un prodotto: l’imprenditrice, nota come Estetista Cinica, si è poi scusata per l’uso superficiale che ha fatto del simbolo, senza conoscerne evidentemente le implicazioni sociali e politiche.

Fear of Missing Out

Il discorso, probabilmente, è anche più generale, perché ognuno di noi, quando accade qualcosa, sente il bisogno impellente di esprimere la sua irrinunciabile opinione dal suo palco. Semplice necessità di sentirsi parte di un tutto o più subdola emanazione della volontà di parlare degli altri per parlare di sè? Un acronimo inglese esprime bene questo concetto nella sigla FOMO, Fear of Missing Out, che letteralmente esprime il terrore di “essere tagliati fuori”. Abbiamo bisogno di gridare agli altri che abbiamo un’opinione, che siamo parte di quella lotta e braccia di quella causa, senza però poi fare molto altro.

Influencer e la guerra: tripudio del Grief meme

Una delle evoluzioni di questo trend è quella che Kyle Chayka, contributor del New York Times, ha definito “Grief meme”: si tratta delle cornici che richiamano questa o quell’altra causa e che circondano le immagini del profilo dei vostri contatti su Facebook. Nella foto c’è il vostro amico che fa aperitivo, attorniato da una grafica piuttosto discutibile che recita solitamente un accorato “Pray for” + argomento a piacere. Ci sentiamo così superiori alla zia che ne beneficia e che ci manda i buongiornissimi, ma quello che facciamo noi, sebbene utilizzando magari un social e un linguaggio diverso, è esattamente lo stesso.

“Te lo spiego in due minuti”

Come sottolinea dal suo profilo Instagram la giornalista Serena Doe Mazzini, Instagram è il regno del grottesco: alle immagini di morte e distruzione con cui esercitiamo il nostro inappuntabile ruolo di sensibilizzatori dell’opinione pubblica, si alternano le foto sugli sci, quelle del nostro cane e della nostra ultima sessione di shopping. Ultimamente, hanno conquistato una loro fetta di pubblico tutti quei caroselli di grafiche che tentano di spiegare in 10 slide molto semplificate un fenomeno o una notizia.

Per non parlare dei contenuti alla “Te lo spiego in due minuti”. Se avete frequentato un corso universitario o aperto anche solo un libro, così come non si spiegano l’AIDS, la costruzione di una casa, la pittura nel Rinascimento, non si può parlare della guerra in Ucraina in due minuti. Chi ve lo promette sta vi sta vendendo fuffa, magari facendo leva sulla vostra volontà di sfoggiare a cena due concetti e uno slogan appresi da una story. Ve la vendono come divulgazione pop, ma è solo informazione sempliciotta.

Gli influencer e la guerra: il rischio boomerang

Il risultato, poi, rischia di essere aberrante e patetico allo stesso tempo. Se un argomento non si conosce a fondo, è facile essere polarizzanti ma è altrettanto semplice incappare in facilonerie o errori che, poi, rischiano di rivelarsi un boomerang. Coime le iniziative patetiche e assolutamente ininfluenti che stanno prendendo piede in queste ore, a sostegno dell’Ucraina. La FIGC, per esempio, ha previsto che i match di questo weekend, attenzione, inizieranno con 5 minuti di ritardo, in segno del profondo sdegno del calcio italiano verso Vladimir Putin. Ora, è vero che le proteste simboliche hanno valore proprio nella loro mancanza di impatto diretto su chi viene contestato, ma c’è una linea sottile che separa simbolico e patetico.

Gli influencer e la guerra: sì, ma in Fashion Week

“Noi il nostro lo abbiamo fatto”, sembra essere l’idea di fondo: come quegli influencer che, tra una passerella della Milano Fashion Week e l’altra, hanno pubblicato fotogrammi e cuori spezzati per l’Ucraina. C’è solo una cosa che non torna: l’ex presidente Ue Tusk poche ore fa ha dichiarato che la debolezza delle sanzioni comminate alla Russia è da imputare principalmente a Germania e Italia. Non è certamente colpa degli influencer, ovvio: però, la moda rimane uno dei settori che ci legano mani e piedi alla grande madre Russia. Forse, come evidenziato sempre da Mazzini, sarebbe necessario qualcuno che aiutasse influencer esposti in questo settore a unire i puntini, prima che loro cerchino di farlo con le folle astanti.

Analisti geopolitici in 3, 2, 1

Il problema, dunque, non riguarda solo gli influencer, ma, più generalmente, la prostrazione all’algoritmo. Non si diventa analisti geopolitici (e tre) in un giorno. Non lo si diventa con le grafichine Instagram. Bisogna però iniziare a pensare che nel calderone dei social finiscano reazioni emotive e view, smarchettamenti e informazione un tanto al chilo. Semplificare tutto, semplificare sempre: per vendere una crema, una bibita, per finire in tendenza. Con le grafichine di Canva si spiega il mondo, anche se non sono loro le cause della nostra pigrizia, ma forse l’effetto, in una sorta di cane che non ha nemmeno voglia di mordersi la coda. Segue ADV, poi post degli stivali nuovi, poi ancora brunch in centro, nella dimensione piatta e orizzonatale, mentre su Twitter le tendenze, al momento sono #Lol2 e #RussiaUkraineConflict.

Elisa Ghidini

 

 

 

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