Industria tessile e consumi sono il binomio più preoccupante della nostra epoca, se prendiamo in considerazione il settore della moda. I grandi colossi dell’abbigliamento sembrano applicare delle piccole rivoluzioni ai loro processi produttivi, eppure, secondo stime recenti, a crescere non sono soltanto le somme di denaro che gravitano attorno a questo settore, ma anche i consumi e la produzione (troppe volte) superflua.
Industria tessile e consumi sono stati al centro dello studio di Statista, il portale internazionale per la diffusione di analisi e dati statistici tra i più accreditati al momento. P. Smith riporta su Statista il 4 di questo mese una stima sul valore del mercato mondiale del fast fashion che vedrebbe una crescita esponenziale del giro d’affari in questo settore. La stima sostiene che la crescita raggiungerà addirittura i $133.43 miliardi entro il 2026.
A destare preoccupazione è proprio questa crescita che parrebbe inarrestabile, nonostante nel corso di questi anni l’opinione pubblica sia stata invasa da avvertimenti chiari sui rischi dell’attuale sistema che vede l’industria tessile come un immenso vulcano che erutta senza sosta, creando di conseguenza montagne di rifiuti che finiscono poi per danneggiare irrimediabilmente molte aree del nostro Pianeta. La crescita esponenziale del valore di mercato dell’industria tessile sta registrando una continua crescita, passando dai $91.3 miliardi nel 2021 a un aumento fino a $99.23 miliardi nel 2022.
In queste circostanze, bisogna tenere ben presente che una grossa parte di questo mercato è occupata dalla produzione fast fashion che, pur avendo raccolto molte campagne di sensibilizzazione a suo discredito, continua a diffondersi e a sovrapporsi alla produzioni responsabili e meno competitive, grazie ai principali colossi che alimentano questo sistema e alla diffusione di nuove piattaforme ogni anno, talvolta poco sicure anche dal punto di vista della privacy dei consumatori che usufruiscono di questi servizi. La scelta dei consumatori è fondamentale nell’orientare il mercato verso una certa tendenza, possibilmente più rispettosa del green; tuttavia, non è sempre immediato riconoscere un prodotto sostenibile da uno con un background più ambiguo.
Negli ultimi tempi si è parlato molto di “greenwashing” a proposito di quella serie di strategie messe in atto dalle aziende per dare una parvenza di sostenibilità ai propri prodotti. Queste strategie spesso fondano le loro basi su un’apparenza fuorviante e risultano essere, a conti fatti, prive di reale efficacia ambientale, celando una produzione intensiva, senza sosta e ingiusta.
Pur tenendo conto del fatto che di industria tessile e consumi se ne parli un po’ dappertutto, sono ancora molti i terreni poco esplorati dove l’insidia dell’inquinamento riesce a farsi largo. Fra questi possiamo annoverare:
– coltivazioni intensive
– l’ingente consumo d’acqua (la Banca Mondiale stima che circa il 20% dell’inquinamento dell’acqua derivi dall’industria tessile)
– la predominanza del poliestere nei consumi, nonostante sia un noto inquinante sia durante il processo produttivo sia in fase di riutilizzo durante i lavaggi.
La maggior parte dei materiali presenti in commercio è di natura sintetica, inducendo rischi per l’ambiente e la salute. Tuttavia, la produzione dei sintetici a volte viene giustificata dai marchi per mezzo di pubblicità relative al riuso, sostenendo che i materiali impiegati per la produzione degli articoli in questione deriverebbero da programmi di riciclo. Tuttavia, la vita di un capo non termina durante la fase di produzione ma prosegue nel tempo con l’utilizzo, il lavaggio, la durabilità che esso dovrebbe garantire.
Non si tratta soltanto di indossare, dunque, ma di indossare ancora e ancora, possibilmente impattando poco e gettando via il più tardi possibile. Ma a oggi, nel dicembre 2023, le stime ci raccontano di un futuro incerto dove si prospetta, a poco più di due anni, una crescita preoccupante del giro d’affari che coinvolge i consumi fast.