Luana D’Orazio aveva 22 anni ed era un’operaia: è morta stamattina mentre lavorava in una fabbrica vicina a Prato. La sua vicenda s’inserisce in quella sempre più complessa dei diritti dei lavoratori nell’industria tessile e della moda. Questo comparto ha negli anni accumulato catastrofi e tragedie. Si fa sempre più largo la necessità di rivedere le strutture di lavoro e le norme sulla sicurezza. Inoltre, è chiaro ormai come anche le nostre scelte nell’abbigliamento influenzino le vite degli altri.
L’industria tessile e, con essa, quella della moda, in un sistema economico capitalista e in uno stile di vita consumistico, non può che conoscere una fortuna elevatissima. Più il comparto si allarga e più la necessità di lavoratori aumenta. Ma il ritmo frenetico di produzione e l’enorme richiesta portano, anche in questo settore, a mettere in disparte i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, la manutenzione e il controllo della sicurezza. Dal crollo del Rana Plaza a oggi, le tragedie si accumulano. Diventa necessario indagare l’industria della moda a fondo e svelarne i segreti.
Il problema della sicurezza
Luana D’Orazio aveva 22 anni. Era un’operaia molto giovane che lavorava da circa un anno nella fabbrica tessile di Oste di Montemurlo, vicino a Prato. Stava lavorando a un orditoio, quando è rimasta agganciata al rullo. È stata risucchiata dal macchinario.
Il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, ha parlato di:
Un’altra vittima innocente che pesa sulla coscienza di chi non fa rispettare le norme sulla sicurezza sul lavoro. Ora basta!
E, insieme, i sindacati hanno detto che: “chiedere sicurezza è come abbaiare alla luna”. La vicenda ha riacceso il dibattito delle morti sul lavoro, che in Italia, solo nel 2020, sono state 1.151. Ovvero, più di tre persone al giorno. Il settore manifatturiero, in cui rientra l’industria tessile e della moda, è in assoluto uno dei più pericolosi. Ma fermarci all’Italia e ai suoi problemi atavici significherebbe banalizzare un problema globale. Una questione intrinsecamente connessa al sistema economico che ci sostenta. Sistema che, però, come sostiene addirittura Emmanuel Macron, presidente francese, ha esposto molte persone alla crisi economica e contribuisce ad aumentare le diseguaglianze sociali.
Le tragedie nell’industria tessile
Punto cardine del sistema capitalistico resta l’industria tessile e il mercato della moda, nei quali si contano negli anni plurime catastrofi. Molto spesso li si chiama “incidenti” quando si tratta, invece, di vere e proprie mancanze nel rispetto delle normative vigenti nella sicurezza sul lavoro. Altre volte ancora, quello che manca sono interventi di manutenzione degli edifici. Può accadere allora quello che si è visto il 24 aprile 2013 a Savar, un sub-distretto nella Grande Area di Dacca, la capitale del Bangladesh. Un edificio di otto piani, il Rana Plaza, crollò quel giorno, e 1.134 persone persero la vita. All’interno del palazzo si trovavano vari negozi e attività, tra cui alcune fabbriche di abbigliamento. È ad oggi il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia.
In quel caso, vennero notate delle crepe sull’edificio, ma ai lavoratori fu ordinato di tornare il giorno successivo, salvo poi restare intrappolati nel collasso dello stabile. È la tragedia da cui parte il documentario Le ali non sono in vendita dell’organizzazione Campagna abiti puliti.
Ma il disastro più recente è quello di questo 8 febbraio. 28 persone hanno trovato la morte in un laboratorio tessile clandestino sotterraneo a Tangeri, in Marocco. Il laboratorio che si trovava lì da dieci anni si è inondato a causa delle fortissime piogge e otto uomini e 19 donne sono annegati. Questa tragedia trova voce nelle proteste contro il governo e in quelle rispetto ai soccorsi tardivi, ma c’è un particolare: nel laboratorio si fabbricavano camicie di marca da distribuire a livello internazionale.
Si fa quindi largo, nelle fabbriche e industre tessili, la prospettiva del sistema della moda. Non si tratta di un episodio di portata nazionale, ma di qualcosa che comprende il mondo globalizzato. Proprio come quello che accadde nel dicembre del 2019 a Delhi, in India. In questo caso, 40 persone morirono in un incendio che scoppiò in una fabbrica tessile. Molti operai e molte operaie, nella gran parte migranti e alcuni minorenni, stavano dormendo all’interno dello stabile quando le fiamme divamparono.
Campagna abiti puliti, che seguì la vicenda, commentò:
Ci chiediamo inoltre perché quelle persone stessero dormendo nella fabbrica, per di più durante il fine settimana e con la produzione ferma. Non potevano permettersi i costi di un alloggio o del trasporto? È chiaro che si apre anche una questione relativa ai salari dignitosi dei lavoratori, in particolare di quelli più vulnerabili come i migranti.
Un ambito intersezionale che necessita di soluzioni intersezionali
È così che si apre un problema intersezionale all’interno dell’industria della moda. Un problema trasversale che comprende economia e diritti, ma che è direttamente interconnesso al rispetto dei generi, delle età – molte lavoratrici sono donne e altrettanti sono i minori – e alle discriminazione tra le classi. I cardini sono molteplici: le violazioni alla base del lavoro in sicurezza, dall’Italia al Bangladesh, sono uno di questi. Ma anche i ritmi di lavoro estenuanti, accettati per via della condizione di bisogno, come nel caso di Luana, di povertà come nel caso del Rana Plaza e di Dacca, o addirittura d’indigenza, come a Delhi.
Condizioni accomunate dall’appartenenza dei lavoratori e delle lavoratrici a una categoria discriminata, o comunque non privilegiata. Una situazione umana che non permette di sostituire il proprio lavoro con un altro che garantisca il diritto alla sicurezza e alla salute. Salute, sì, perché il mercato della moda si è alimentato anche durante la pandemia, seppur di meno rispetto al solito. Un nutrimento che troppo spesso durante l’epidemia è andato a scapito dei lavoratori dell’industria tessile. Un sistema che sacrifica le spese per la sicurezza in favore del profitto delle grandi aziende.
È chiaro come, nel mondo globalizzato, un problema intersezionale necessiti di una soluzione intersezionale. Ovvero, di acquistare responsabilmente, attuando scelte politiche tramite il denaro che possediamo. Attuando quindi la rivoluzione gentile.
Antonia Ferri