Un’indagine svela l’inquinamento senza fine dell’industria della moda

CO2 nella atmosfera, nuovo record Industria della moda: lontana dalla decarbonizzazione

CO2 nella atmosfera

I nostri vestiti inquinano il mondo. Il report “What fuels fashion?” di Fashion Revolution parla chiaro: l’industria della moda, tra le più ricche e tra le più inquinanti al mondo, mette in campo strategie insufficienti nell’attuare la decarbonizzazione, necessaria alla salvaguardia ambientale; non prevede obiettivi soddisfacenti per ridurre la dispersione di CO2 nell’atmosfera; non comunica in maniera trasparente i dati sulla sovrapproduzione, sull’inquinamento prodotto e sui soldi spesi per attuare politiche green.

L’industria della moda è tra le maggiori dirette responsabili dell’inquinamento e del surriscaldamento globale. Questo perché, con i suoi $770 miliardi di fatturato stimati, presenta in tutto il mondo catene produttive estremamente inquinanti, e utilizza combustibili fossili in ogni fase della fabbricazione di vestiti: dalla produzione delle fibre tessili al processo meccanico di tessitura e rifinitura.

Negli ultimi anni, la comunità scientifica internazionale ha lanciato numerosi e allarmanti appelli riguardo la necessità di eliminare gradualmente i combustibili fossili nei processi produttivi per evitare di superare la quota di 1,5 °C di surriscaldamento della superficie terrestre. Ci si potrebbe aspettare, pertanto, che l’industria della moda abbia fin da subito agito in quella direzione: purtroppo, il report indipendente di Fashion Revolution ha scoperto che così non è.

“What fuels fashion?”: il report che smaschera l’industria della moda

Fashion Revolution è il più importante movimento di attivismo nel settore moda del mondo: coinvolge cittadini, attivisti, grandi imprese, figure politiche e semplici appassionati. L’obiettivo del movimento è rendere l’industria della moda un settore più etico, salvaguardando i diritti dei lavoratori e i loro salari, favorendo l’inclusione e la sensibilizzazione verso le tematiche ambientali.

E proprio su queste ultime si focalizza il report pubblicato recentemente, What fuels fashion?, ovvero Che cosa alimenta la moda?. Sono stati esaminati 250 tra i più grandi marchi e rivenditori di moda del mondo, e sono stati classificati in base al livello di divulgazione sui dati relativi alle tematiche ambientali all’interno delle loro catene produttive.

Per valutare i marchi sono stati utilizzati più di 70 criteri differenti a tema sostenibilità, e i risultati sono sconvolgenti: solamente 4 delle 250 imprese analizzate hanno raggiunto gli obiettivi minimi di riduzione delle emissioni fissati per le aziende dalle Nazioni Unite, mentre più della metà non fornisce alcun dato riguardo il denaro destinato alla decarbonizzazione e all’attuazione delle politiche green previste a livello internazionale.



Nella classifica generale dei marchi più responsabili e trasparenti, Puma e Gucci risultano i migliori con un punteggio attorno al 70%; seguono H&M e Champion tra il 50 e il 60%. Tra i peggiori, con un punteggio percentuale di 0, famosissimi brand come Reebok, Fashion Nova e Forever 21. È bene specificare che non si tratta di un giudizio sull’eticità né sulla sostenibilità dei marchi presi in considerazione, ma di una valutazione specifica in merito alla trasparenza e all’onestà sullo stato di avanzamento della decarbonizzazione, dei livelli di sovrapproduzione e inquinamento, di eventuale sfruttamento dei lavoratori.

La decarbonizzazione non è (mai stata) una priorità dei brand

Il quadro che emerge dal report è poco incoraggiante.

Circa il 25% delle imprese considerate non fornisce alcun dato sulle proprie politiche di decarbonizzazione, evidenziando come la crisi climatica non rappresenti per loro una priorità.

Il 47% dei brand rivela di possedere un obiettivo ambientale Science Based Targets Initiative (SBTi) che copre l’intera catena produttiva, e il 42% segnala progressi degni di nota rispetto a questi obiettivi. 

Dei 105 marchi su 250 che rendono noti i loro progressi, 42 rivelano aumenti delle emissioni rispetto alle loro linee di base, ed è un numero elevatissimo se pensiamo che ciascuna di queste 42 aziende fattura per milioni di dollari, e che molte imprese simili sono rimaste escluse dall’indagine.

Per gli altri 145 marchi (il 58% del totale), non è invece chiaro quali siano i progressi in campo ambientale.

Ma non è finita: l’86% delle aziende non ha un obiettivo ben definito di eliminazione graduale del carbone e il 94% non ha piani di transizione verso le energie rinnovabili per alimentare le proprie catene di produzione.

Solo meno della metà dei brand, il 43%, sono trasparenti sul loro approvvigionamento di energia, ma nessun grande marchio di moda rivela l’utilizzo in termini orari dell’elettricità all’interno della catena di produzione. Di conseguenza, diventa difficile credere alle dichiarazioni pubbliche dei brand riguardo il risparmio energetico messo in atto.

Anche sui dati di sovrapproduzione è mistero

Anche la sovrapproduzione è un problema reale dell’industria della moda: molti brand sovrastimano le proprie vendite e finiscono per realizzare capi destinati a rimanere invenduti e a riempire le ormai stracolme discariche.

Ebbene, l’89% dei brand non rivela quanti vestiti produce annualmente. Non solo: il 45% non rivela né quanto produce né l’impronta ambientale delle emissioni in fase di produzione. Questo ci fa capire che le industrie danno priorità assoluta allo sfruttamento delle risorse, evitando di assumersi le responsabilità per i danni ambientali legati alla produzione.

Greenwashing sulla sostenibilità della produzione

Il 58% delle industrie campionate dichiara di utilizzare materiali sostenibili per produrre molti dei propri capi, e di voler incrementarne l’utilizzo. Questo, però, non chiarisce come viene alimentata la catena produttiva: l’adozione di materiale sostenibile può benissimo andare di pari passo con l’utilizzo di materie prime altamente inquinanti, rendendo così vani gli sforzi per una maggiore eticità della produzione.

Maeve Galvin, direttore delle campagne di Fashion Revolution, ha dichiarato:

Investendo almeno il 2% delle loro entrate in energia pulita e rinnovabile e nell’aggiornamento delle competenze e nel sostegno dei lavoratori, le imprese della moda potrebbero contemporaneamente frenare gli impatti della crisi climatica e ridurre la povertà e la disuguaglianza all’interno delle loro catene di produzione. Il crollo climatico è evitabile perché abbiamo la soluzione, e la  moda può certamente permettersi di metterla in pratica.

Decarbonizzazione e salvaguardia ambientale devono diventare la priorità

Galvin ha ragione: le soluzioni alla crisi climatica e all’inquinamento ambientale sono nelle nostre mani; la comunità scientifica internazionale le ha spiegate chiaramente. La conversione, almeno parziale, alle energie rinnovabili è molto costosa, ma possibile: l’industria della moda è tra le più ricche del mondo e, ricordiamo, genera un indotto di quasi 800 miliardi di dollari l’anno.

È necessario che l’industria manifatturiera, cui i brand della moda si appoggiano, riconverta  l’approvigionamento energetico e cessi progressivamente, ma fattivamente, l’utilizzo del carbone. In questo processo di conversione, la correttezza e la trasparenza nella pubblicazione dei dati riguardanti la propria catena produttiva sono assolutamente imprescindibili per movimentare il dibattito pubblico e spingere le imprese stesse ad agire in maniera più incisiva.

Rimangono meno di 6 anni per raggiungere l’obiettivo di riduzione al minimo dei combustibili fossili all’interno delle industrie, e per evitare il punto di non ritorno: che la temperatura globale superi il grado e mezzo di surriscaldamento generando catastrofi climatiche senza che l’uomo possa più salvarsi.

C’è lo ricorda l’operato di Fashion Revolution e di tantissimi attivisti in tutto il mondo : il tempo di agire è adesso, o mai più.

Michela Di Pasquale

 

 

 

 

 

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