Indo-Pacifico, perché le marine europee pattugliano Taiwan

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Forty-two ships and submarines representing 15 international partner nations manuever into a close formation during Rim of the Pacific (RIMPAC) Exercise 2014. Twenty-two nations, more than 40 ships and six submarines, more than 200 aircraft and 25,000 personnel are participating in RIMPAC exercise from June 26 to Aug. 1, in and around the Hawaiian Islands and Southern California. The world's largest international maritime exercise, RIMPAC provides a unique training opportunity that helps participants foster and sustain the cooperative relationships that are critical to ensuring the safety of sea lanes and security on the world's oceans. RIMPAC 2014 is the 24th exercise in the series that began in 1971.

Da alcuni anni sempre più spesso diverse navi delle flotte europee  navigano nelle acque dell’Indo-Pacifico. Quella che nasceva come una dimostrazione di amicizia fino al 2022, è, dopo l’inizio della guerra in Ucraina, una necessità per Washington. Ma quanto valore possono avere le navi dell’Europa militare dall’altro lato del mondo? Ed è necessariamente un valore militare?

Navi europee nell’Indo-Pacifico

La mattina del 21 giugno 1840 un reparto della Royal Navy, la Marina Militare Britannica, è di fronte alla città di Macao. All’improvviso, una delle fregate della flotta inglese, issa la bandiera bianca e si avvicina al porto. I cannonieri cinesi sulla costa ignorano il significato di “bandiera bianca”. Tuttavia, conoscono la Union Jack. Una flotta battente bandiera inglese, il 3 novembre dell’anno precedente, aveva affondato tre cannoniere della marina dell’imperatore Daouguang. Una ferita che bruciava ancora. Gli artiglieri del porto di Macao non ci pensano due volte, aprono il fuoco su quella nave inglese che, da sola si sta avvicinando. Il resto della flotta assiste all’affondamento della compagna. Poi, risponde. Macao viene pesantemente bombardata, ed è solo l’inizio. Comincia la prima guerra dell’oppio, viene poi la seconda.

Una potenza europea apre a cannonate il mercato cinese al mondo. Incapace di controllarne il territorio per vastità geografiche e demografia, cerca di prendere controllo dei commerci. In Cina l’episodio è ricordato come l’inizio del secolo dell’umiliazione, circa cento anni nei quali l’Impero del Centro è rimasto soggetto all’arbitrio di potenze occidentali. Fino alla rivoluzione Maoista.



La questione taiwanese

Sono passati quasi due secoli dal bombardamento inglese di Macao, ma ancora una volta flotte occidentali pattugliano le coste della Cina. O meglio, di una Cina. Taiwan è un’isola di medie dimensioni, poco più piccola del lombardo-veneto, che sorge tra le onde del Mar Cinese Meridionale, a soli 120 chilometri dalla Repubblica Popolare. Lo status di Taiwan è molto particolare: quasi tutti i Paesi del mondo, Stati Uniti compresi, la riconoscono come una provincia di Pechino, ma ciò nonostante sono in molti ad appoggiarne l’indipendenza.

Anche la sua storia è un unicum. Per secoli è stata una colonia portoghese, con il nome di Formosa. Ai tempi della guerra civile cinese, tra gli anni ‘30 e ‘40 del secolo scorso, Taiwan divenne il rifugio per le truppe nazionaliste del generale Chiang Kai Shek, sconfitte dall’esercito di Mao. I nazionalisti fondarono quindi nell’isola di Taiwan la loro Repubblica di Cina, con Capitale Taipei, continuando tuttavia a reclamare i territori continentali di quella che nel frattempo era diventata l’attuale Repubblica Popolare Cinese, con capitale Pechino. Nello stesso tempo, l’amministrazione maoista continuò a reclamare Taiwan quale sua provincia.

Si sarebbe potuta considerare una questione di poco conto, un dossier secondario in un angolo sperduto del mondo, se quell’angolo non fosse diventato nel corso degli anni il principale cuore dell’economia globale. Non solo, gli Stati Uniti trovarono fin da subito nell’isola di Taiwan un valido alleato ed un ottimo punto d’appoggio per il contenimento della Cina comunista. E Taipei fu ben felice di poter contare su un così potente protettore nella difesa della sua indipendenza da Pechino.

Passarono i decenni, e la questione taiwanese venne messa da parte. Taipei non aveva alcun tipo di capacità demografica per muovere guerra ai cugini del continente, e la Repubblica Popolare attraversava anni di grandissima difficolta economica, sociale, ideologica. Il compito di conquistare l’isola venne passato di generazione in generazione, di Comitato Centrale in Comitato Centrale, senza che Pechino riuscisse mai ad avere abbastanza energia per completare il grande progetto di unificazione. Almeno, forse, fino ad oggi.

L’ultimo decennio di diplomazia cinese

La Repubblica Popolare Cinese entra negli anni ’20 del terzo millennio come un peso massimo della geopolitica globale. La sua economia è la seconda del Pianeta, la sua popolazione gioca un testa a testa con la vicina India per il primato mondiale (ma resta comunque quattro volte superiore a quella del suo diretto competitor, Washington), le sue forze armate hanno appena completato il proprio processo di ammodernamento, la sua diplomazia raggiunge e mette radici in tutte le periferie abbandonate della globalizzazione, e non solo.

Soprattutto, sola nel panorama del nostro secolo insieme agli Stati Uniti, la Repubblica Popolare è in grado di esportare una narrazione che colpisca l’immaginazione dei popoli ad ogni latitudine. Tale narrazione, l’idea con cui Pechino si presenta fuori dai propri confini, non è certo il comunismo, un termine che in tante aree del mondo ancora oggi suscita brutali ricordi di privazione. Non è nemmeno la promessa del benessere materiale: in questo gioco perderebbe in partenza contro l’immagine patinata ed hollywoodiana degli Stati Uniti. La narrazione che Pechino fa di sé è più simbolica. È la narrazione di una possibilità, la possibilità di un mondo multipolare, in contrapposizione con quello che i Paesi più lontani dalla nostra sensibilità occidentale chiamano “impero globale americano”.

Il Presidente cinese Xi Jinping, fin dalla sua prima elezione nel 2012, ha da subito avviato una serrata politica diplomatica nei confronti di tanti Paesi non allineati, allacciando negli anni relazioni sempre più strette in tutti i continenti. Dopo dieci anni dalla sua salita al potere, Xi inizia a raccogliere i frutti del suo lavoro.

Gli ultimi in ordine, di tempo, la visita del Presidente brasiliano Lula a Pechino, dove si è discussa la sostituzione del dollaro americano con lo yuan per gli scambi commerciali tra i due Paesi. C’è poi l’accordo raggiunto tra Iran e Arabia Saudita sotto la mediazione cinese nella prima metà di marzo. Un successo diplomatico tanto grande quanto è grande l’umiliazione di Washington, costretta a guardare dalla finestra cinese quello che era considerato uno dei suoi migliori alleati in Medio Oriente stringere la mano a chi non nasconde i propri propositi di fare di New York un campo di macerie. C’è ovviamente, l’asse con Mosca, un’asse nel quale, a differenza che nella guerra fredda, a farla da padrone è oggi Pechino.

La claustrofobia cinese nell’Indo-Pacifico

Nonostante la crescente influenza nel mondo, nonostante qualcuno chiami il ventunesimo “il secolo cinese”, Pechino resta al secondo posto della gerarchia globale. E continuerà a farlo. Questo, almeno fino a quando non supererà l’ultimo ostacolo che la separa dalla supremazia mondiale, il solo elemento che abbia mai accomunato tutti gli imperi della storia, in qualsiasi epoca e luogo: il libero accesso al mare, ed il suo controllo. Gli Stati uniti oggi sono prima potenza globale, eppure la loro bandiera non è piantata su territori che non siano i propri. Hanno certamente molte basi in decine di Paesi del mondo, ma non è questo il principale elemento di definizione del loro status, per quanto sia importante. I piedi di ogni impero, anche quello americano, si bagnano nell’acqua salata. Un impero che aspira ad avere il mondo come proprio orizzonte, avrà gli oceani ed i mari del mondo come proprie fondamenta.

La flotta, le flotte, americane hanno il controllo di ogni specchio d’acqua salata del pianeta, Indo-Pacifico compreso. Oggi, per Pechino, il Mar Cinese è una gabbia, che impedisce alle sue navi di muoversi liberamente senza il costante controllo della marina americana, pronta ad intervenire in caso di necessità. Il lucchetto, di tale gabbia, è l’isola di Taiwan, 36 mila chilometri quadrati di terra emersa, pesantemente armata, satura di truppe americane di pronto intervento e con decine di navi all’ancora in grado di raggiungere le coste della Repubblica Popolare in poche ore. Non solo, dietro ai rilievi taiwanesi c’è l’Oceano Pacifico. E poi, potenzialmente, le coste del mondo. Questo è il principale motivo strategico che giustifica agli occhi di Pechino un’invasione per la quale gli analisti americani valutano perdite per tutte le parti coinvolte nell’ordine delle decine di migliaia.

Se davvero questo sarà il secolo cinese, allora inizierà nel momento in cui su Taipei sventolerà la bandiera rossa con le stelle gialle. Ne è consapevole Pechino, ne è consapevole Washington.

Lo sguardo americano, un pendolo tra Ucraina e Taiwan

Quando il 24 febbraio del 2022 i carri russi entrano nel Donetsk dando avvio alla guerra d’Ucraina tutt’ora in corso, a Washington si pone un grosso problema per gli analisti della Casa Bianca. Tutti sono consapevoli che non è possibile accettare un conflitto alle porte del continente più produttivo, stabile e, soprattutto, fedele agli states. Allo stesso tempo ci si rende conto che il sostegno all’Ucraina comporta un dirottamento di energie dal teatro dell’Indo-Pacifico – in cui da anni ci si stava preparando ad uno scontro i cui dubbi a riguardo erano legati al “quando”, piuttosto che al “se” – a quello europeo. E con le energie, i mezzi, gli uomini, i fondi, l’attenzione.

Si opta per il sostegno all’Ucraina, è troppo importante il presidio della nuova cortina di ferro. Non può tuttavia essere lasciato il fronte cinese sguarnito. Esiste in Oriente dal 2007 un’alleanza militare informale, ne fanno parte Stati Uniti, India, Australia e Giappone. Si chiama QUAD, ma non è abbastanza. Nel corso del 2022 si decide di apportare al sistema di alleanze americanocentrico una svolta mai provata prima. Un cambio di rotta, letteralmente, in seno alla prima alleanza militare al mondo, la NATO.

L’Alleanza Atlantica nasce nei primi anni della guerra fredda, ne fanno parte gli Stati Uniti ed i Paesi dell’Europa Occidentale, Italia compresa. La sua funzione è specifica, contenimento dell’Unione Sovietica. Fino alla fine del secolo, e per molti anni successivi, la NATO non è mai intervenuta in contesti che non fossero quello dell’Est Europa. Di fatto, essendo la guerra rimasta, fortunatamente, fredda, non è mai intervenuta. Dopo il crollo sovietico in molti si sono chiesti che senso avesse un’alleanza il cui principale obbiettivo era contenere un Paese che non esisteva più. L’ultimo a domandarselo, in ordine di tempo, è stato Trump, che in diverse occasioni ha minacciato di tagliarle i fondi o addirittura ritirarsene.

Nonostante quella che fu la luminosa stella bianca dell’alleanza euro-americana fosse sempre più fioca, comunque, non venne mai sciolta. Anzi, diversi Paesi dell’Europa orientale dalla fine degli anni ’90 in poi vanno a rimpolparne le fila. Fino a quando, il 24 febbraio scorso, la NATO ritrova la sua raison d’être. Non si chiama più Unione delle Repubbliche Socialiste e Sovietiche, ma Mosca è rimasta sempre quella. Negli ultimi trent’anni, tuttavia, si è inceppato un meccanismo che durante la guerra fredda non aveva bisogno di riparazioni.

Dal 2000 in poi molti Paesi dell’Europa Occidentale hanno stretto rapporti sempre più stretti con una Russia considerata ormai non più minacciosa. Nel biennio 2022-2023, quindi, per questi soggetti è risultato, e risulta, più complicato assumere una postura particolarmente aggressiva nei confronti di Mosca, pur supportando Kiev con fondi e materiali. In questo contesto a Washington si pensa ad una rimodulazione della NATO. L’Europa Orientale, particolarmente ostile per memoria storica nei confronti della Russia, a guardia del confine orientale. L’Europa Occidentale, invece, quinta gamba esterna del QUAD nell’Indo-Pacifico.

L’impegno europeo nell’Indo-Pacifico

La dottrina che vuole i Paesi euro occidentali dispiegati nell’area di Taiwan vede i primi sviluppi già prima della Guerra d’Ucraina. Il Regno Unito, ad esempio invia una sua nave d’assalto anfibio nell’area già nel lontano 2018. Tre anni dopo Londra ha poi schierato nella base giapponese di Yokosuka un gruppo d’assalto di portaerei e ha sempre mantenuto da allora almeno due navi nella regione. Anche la Germania ha preso parte all’impegno condiviso, con una missione durata dall’agosto 2021 al febbraio 2022 e che ha visto una sua fregata pattugliare le acque cinesi con gli alleati della settima flotta americana. La Francia, poi, è un soggetto stabile nell’Indo-Pacifico, potendo contare sui suoi territori d’oltremare della Nuova Caledonia e della Polinesia Francese, con le basi navali annesse. Dopo questa prima tranche, altre missioni europee si sono susseguite e continuano a farlo a ritmi sempre più incalzanti.

Il caso italiano

L’interesse italiano per l’Indo-pacifico è iniziato in sordina diversi anni fa, nel 2007. Questo è infatti stato l’anno in cui Roma è diventata Dialogue Partner del Pacific Islands Forum, tra le prime nazioni europee a farlo. Cinque anni dopo il nostro Paese sigla una collaborazione strategica con il Vietnam, nel 2018 con la Corea del Sud. L’anno successivo l’Italia è quindi Dialogue Partner anche con l’Indian Ocean Rim Association e due anni più tardi Development Partner con l’Association of southeast Asian Nations. Nel 2021 nasce la trilaterale Italia-India-Giappone, anticamera per le due importantissime partnership strategiche firmate quest’anno, con Tokyo e Nuova Delhi. Tutti questi accordi e partnariati hanno certamente un peso militare, ma si traducono specificatamente nell’ambito delle vie preferenziali del commercio e dello scambio di tecnologie.

Da quest’anno, tuttavia, anche l’Italia inizierà a prendere parte a pattugliamenti militari nelle acque di Taiwan. Il 23 ed il 24 marzo di quest’anno la Nave Bergamini ha partecipato ad un’esercitazione congiunta con altre marine alleate nell’Indo-Pacifico occidentale. Oltre a questo, nel corso dell’anno corrente sono previste missioni della recentissima Fregata Morosini e dell’ammiraglia della nostra flotta, la Portaerei Cavour.

Il senso delle flotte europee nell’Indo-Pacifico

Ancora una volta, in conclusione, navi occidentali davanti alla Cina. Ai tempi delle guerre dell’Oppio, l’obbiettivo era aprire, con la forza, i mercati dell’Impero del Centro. Oggi si cerca di contenere la Repubblica Popolare. Nonostante la presenza dei Paesi euro occidentali nell’Indo-Pacifico sia costante, ci si rende conto che le capacità marittime che il nostro continente può mettere in campo siano molto limitate. Se non altro per le immense distanze che ci separano dal “campo di gioco”. Le aspettative di alleati, e avversari, nel contenimento marittimo cinese, sono quindi diverse da quelle propriamente militari. La presenza di navi italiane, inglesi, olandesi o tedesche nei pressi di Taiwan, alza ulteriormente il costo di un conflitto per Pechino. Nonostante le basse possibilità che flotte europee di poche unità possano rappresentare una minaccia per la marina cinese, infatti, il loro danneggiamento, o peggio, avrebbe pesantissime ripercussioni sul piano diplomatico.

Riccardo Longhi

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