Martedì 8 e mercoledì 9 agosto si è tenuto a Belém un incontro internazionale per salvaguardare l’Amazzonia. 2029 come punto di non ritorno per la conservazione della foresta pluviale più importante del mondo, dicono gli scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change
Un incontro internazionale per salvaguardare l’Amazzonia si è tenuto questa settimana nella città di Belém (traduzione portoghese di “Betlemme”), capitale dello stato di Parà, nel nord del Brasile, e futura sede della Conferenza sul clima del 2025.
Il presidente Luiz Inàcio Lula da Silva, dopo aver formulato la proposta alla Cop27 di Sharm El-Sheikh, ha invitato i capi di stato degli 8 paesi che condividono con il Brasile una porzione di foresta amazzonica (Bolivia, Perù, Colombia, Ecuador, Venezuela, Guyana francese, Guyana, Suriname) per discutere del futuro di questo fondamentale angolo di mondo. Questi paesi fanno parte dell’Amazon Cooperation Treaty Organization (ACTO). Tutti presenti, ad eccezione di Nicolas Maduro per il Venezuela ed Emmanuel Macron, chiamato a rappresentare la Guyana francese, dipartimento oltremare della Repubblica francese.
Molto può essere fatto se si adottano misure urgenti, la “scadenza” è fissata al 2029, secondo gli scienziati dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, organo delle Nazioni Unite). I risultati dei due giorni di conferenza sono stati però contraddittori: i paesi aderenti hanno adottato una dichiarazione congiunta di 113 punti (resa pubblica come “Dichiarazione di Belém”), tuttavia i leader sudamericani hanno avuto diverse divergenze in tema di contrasto alle attività più disastrose per l’ecosistema Amazzonia (estrazioni minerarie e petrolifere, deforestazione, soprattutto).
Numerosi problemi che richiedono sforzi congiunti
La presidenza Lula da Silva ha indubbiamente dato respiro alla foresta amazzonica, dopo il periodo Bolsonaro: a luglio, l’Istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile ha reso noto che la deforestazione è diminuita sensibilmente nella prima metà del 2023 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
I fattori di rischio per l’Amazzonia sono molteplici: il settore primario rappresenta probabilmente la causa di maggior stravolgimento di quest’area, a causa degli incendi volontari attuati per fare spazio a campi per l’agricoltura o terreni per l’allevamento; i cercatori di minerali (soprattutto oro, i cosiddetti “garimpeiros”), operando attività estrattive a cielo aperto illegali inquinano i corsi d’acqua con sostanze tossiche, favoriscono pratiche di corruzione e si fanno portatori di malattie ai danni delle popolazioni autoctone – in questa direzione, una delle prime misure del Governo Lula da Silva, a gennaio, è stata proprio un’operazione di polizia per espellere questi cercatori d’oro dalle terre degli Yanomani, al confine tra Brasile e Venezuela; l’industria del legno, della gomma e le attività estrattive di petrolio e gas naturale indeboliscono ulteriormente quest’area naturale. La vastità della regione e la debolezza delle frontiere all’interno della foresta rendono questi ampi territori difficili da controllare: i cartelli della droga (peruviani, colombiani, brasiliani) sfruttano le vie fluviali e le piste di atterraggio nascoste nella foresta per il contrabbando. Solo uno sforzo congiunto di corpi di polizia locali e internazionali può porre un freno all’attività dei narcos.
Identità indigena a difesa della foresta
Da sempre in prima linea nella lotta alla deforestazione e allo sfruttamento delle risorse del territorio, i circa 400 popoli che abitano l’Amazzonia (per un totale di oltre 1 milione di persone) hanno trovato maggiore spazio politico con la presidenza di Lula da Silva, interlocutore attento. Le popolazioni autoctone soffrono direttamente le speculazioni economiche sulla foresta: sono le vittime dirette e quotidianamente vedono fonti alimentari e legami tradizionali e culturali distrutti dall’azione devastatrice del profitto. Così la militanza civile, nei giorni di Belém, è stata compatta e fortemente presente.
Inoltre, con l’elezione di Marina Silva al Ministero dell’Ambiente brasiliano, già figura di spicco nelle lotte a salvaguardia della foresta amazzonica, c’è stata un’ulteriore conferma della svolta messa in atto dal Governo Lula da Silva in materia di protezione ambientale, dopo gli anni di sfruttamento selvaggio favorito da Bolsonaro (il Brasile d’altra parte ha responsabilità su oltre il 60% dell’intera foresta).
Aspettative infrante
I paesi sudamericani non sono però riusciti a mettere un punto fermo riguardo deforestazione e pratiche estrattive: l’opposizione della Bolivia (paese con un governo di sinistra che però non si vuole privare dell’estrazione mineraria) ha impedito al summit di sottoscrivere l’obiettivo della deforestazione zero entro il 2030. Il volere del Brasile e del Venezuela, invece, si è imposto a difesa delle pratiche di estrazione petrolifera, attività di cui soprattutto il Governo di Lula da Silva non riesce a fare a meno.
Dura l’opposizione di Gustavo Petro (presidente colombiano di sinistra) nei confronti delle trivellazioni di petrolio:
Una giungla che estrae petrolio: è possibile mantenere una linea politica a quel livello? Scommettere sulla morte e distruggere la vita?
Petro ha accusato la sinistra sudamericana, alla quale appartiene, di “negazionismo climatico”, sottolineando l’ipocrisia dei leader politici che si nascondono dietro lo spauracchio della transizione ecologica per investire ulteriormente sul fossile.
Il grande gioco dell’Amazzonia si giocherà nei prossimi anni, se non addirittura nei prossimi mesi. Nel frattempo, i 113 punti della Dichiarazione (tra i quali si sottolinea l’idea di un Parlamento dell’Amazzonia e di un’Alleanza amazzonica contro la deforestazione) saranno sottoposti all’attenzione delle Nazioni Unite e serviranno da punto di partenza di discussione alle prossime conferenze sul clima.
Luca Oggionni