Di Carlo Nesti
Martina Tealdi ha 11 anni, vive a Fossano, fra i castelli del Cuneese, ed è tifosa della Juventus.
Il 17 agosto era a Barcellona, con mamma Serena, papà Nadio, e la sorella maggiore Asia. Si trovavano sulla Rambla, a pochi metri dal furgone dell’Isis, che ha seminato la morte.
La gente, in fuga, le ha fratturato la clavicola, ma lei è riuscita a salvarsi per miracolo, osservando tanti altri destinati ad una fine ben peggiore.
L’incredibile è che questa famiglia aveva scelto Barcellona, per dimenticare la sede abituale delle vacanze, e cioè Nizza, dove l’Isis aveva colpito l’estate precedente.
Il sogno di Martina, che ora dovrà combattere per molto tempo con lo spettro mentale di una teorica persecuzione, da parte dei combattenti del Male, era conoscere il suo idolo: Paulo Dybala.
Il ventitreenne campione ha già dimostrato sensibilità in passato, trasmettendo allegria fra i bambini di Laguna Larga, il paese mai scordato in Argentina, e assistendo, di persona, i senzatetto di Torino.
A gennaio, lui e Juan Manuel Iturbe, che giocava nell’altra squadra cittadina, avevano distribuito coperte, nei giorni caratterizzati dal freddo più gelido del capoluogo piemontese, per conto della Comunità di Sant’Egidio e della Croce Rossa.
Il padre Nadio ha riferito che le parole di Paulo hanno avuto, su Martina, un effetto superiore ad una seduta psicologica, o a decine di ansiolitici.
L’esempio di Dybala deve ricordare agli assi dello sport che responsabilità hanno oggi, in un mondo svuotato di valori, davanti ai ragazzi, in quanto credibili, come nuovi punti di riferimento fondamentali.
Papa Giovanni Paolo II disse che lo sport, con i suoi eventi, può favorire la lealtà, la perseveranza, l’amicizia, la condivisione, la solidarietà.
Papa Francesco ha detto che gli atleti, con i loro comportamenti, possono insegnare, laddove non arrivano più famiglia, scuola e società.
Ricordarselo è un dovere, quando persino il “privato” è esposto, giusto sbagliato che sia, in “pubblico”.