La psicoanalisi: tra diagnosi e conquista
La parola “inconscio” ha una storia recente, ma con la psicoanalisi è entrata al centro del dibattito pubblico, e ormai, è utilizzata quasi quotidianamente, intendendo un’azione o un pensiero compiuti senza averne compreso perfettamente il motivo. Questa è una spiegazione sommaria che gratta appena la superficie delle potenzialità di questo concetto.
Esso nasce come contrapposizione di un altro termine (di gran lunga più antico): la coscienza. Infatti, la coscienza di sé è una delle nozioni più basilari dell’essere umano. Anzi, potremmo dire che fin da quando abbiamo memoria, la parola “io” è la più usata e familiare del nostro vocabolario. Tuttora sembra essere una certezza elementare, quel dato su cui il dubbio non può allungare la sua inquietante ombra. Possiamo dubitare del nostro sapere, delle nostre abilità, dei nostri amici, perfino dei nostri figli… ma non dubitiamo affatto che quando diciamo “Io” intendiamo esattamente quella voce nella nostra testa che precede l’espressione verbale.
Fu elaborato per la prima volta da Freud, che lo intese come un insieme di pulsioni e istinti – irrazionali – che influenzano la vita psichica cosciente, pur rimanendo nascosti. Questa scoperta – o per altri invenzione – ha segnato l’inizio della pratica psicoanalitica, definita da Freud stesso come uno «strumento inteso a rendere la conquista progressiva dell’Es (l’inconscio) da parte dell’Io».
Se la coscienza rappresenta l’unità, l’identità, l’Io come un collante che tiene assieme gli aspetti che riteniamo determinanti per la definizione di noi stessi; l’inconscio , al contrario, è il movimento puro del desiderare, mai pago e incontrollabile.
Esso appare come un magma che ribolle al di sotto della superficie cosciente, pronto a eruttare e sconvolgere l’ordine razionale e sicuro dell’Io. Un vero e proprio Altro-Io. Per questo, le malattie nervose erano concepite come un contrasto tra questi due moti: il desiderio incompreso (o rimosso), che spinge sulle mura della coscienza per uscire dal suo abisso; e l’ordinamento rigido del lato cosciente che, invece, gli rifiuta l’accesso al suo territorio. Questo conflitto, di cui il paziente è inconsapevole, provoca sintomi nevrotici come sentimenti d’ansia o di angoscia. La “conquista” di cui parla Freud, sarebbe la presa di coscienza, appunto, da parte del soggetto di questi moti sotterranei e il loro controllo.
La politica dell’inconscio
Il conflitto appena descritto evoca una dimensione politica. Nella censura che la coscienza impone all’inconscio, in questa espulsione di ciò che appare così diverso, come non riconoscere un’eco delle politiche anti-migratorie? Freud ha infatti affermato che l’inconscio non lo si può conoscere se non nel momento in cui viene tradotto in qualcosa di conscio, comprensibile. È evidente che questa sia una definizione che procede da una negazione, ossia: trasportiamo l’inconscio nella nostra coscienza e lo riconosciamo non per ciò che è, ma per ciò che non è: quindi ordine, ragione. In una parola: Io. A questo punto, o ce ne impadroniamo, “addomesticandolo”, oppure lo espelliamo.
Felice Cimatti ha evidenziato come il processo sia lo stesso del procedimento giuridico che dapprima riconosce il cittadino, e poi il suo negativo: il clandestino. Questa parola infatti indica un individuo sprovvisto di cittadinanza. Anche in questo caso siamo di fronte a qualcosa che riusciamo a definire solo per ciò che non è. Se l’inconscio rappresenta i nostri moti pulsionali e istintuali, quindi corporei, la coscienza si identifica con la ragione e il suo strumento, ossia il linguaggio.
La parola “non” che accompagna le definizioni di ciò che deve essere tenuto lontano è il muro che l’Io erige per difendere gli ordinati confini del sé, proprio come la frontiera tra Stati Uniti e Messico. Ma perché c’è bisogno di questa rigida divisione? La risposta è semplice, già Freud l’aveva individuata: paura.
L’Io non comprende il linguaggio dell’Altro-io, i suoi movimenti gli sembrano indecifrabili, e sconvolgono le sue convinzioni, la sua struttura. Questa diversità in realtà non è un disordine, ma semplice differenza, parola che si sposa male con una costruzione incentrata su unità e identità.
L’Io pensa linguisticamente e con leggi logiche, l’Altro-io attraverso il corpo e il suo desiderio. L’Io elabora il concetto di cittadinanza e poi lo richiede, l’Altro-io avverte la minaccia della guerra e della sofferenza e vuole fuggire. Alla frontiera i due si guardano. Uno chiede i documenti, l’altro mostra i segni delle violenze. Il primo non capisce, non c’è riconoscimento, e quindi respinge il secondo.
Dimenticare il corpo
L’Io è dimentico del corpo. La nostra società esige individui indipendenti, misurati, razionali. Ciascuno trascorre tutta la sua vita a potenziare le sue competenze e acquisirne di nuove.
Poi alla frontiera appare l’Altro. La paura di cui parlava Freud impedisce il riconoscimento, poiché significherebbe riconoscersi nei dolori dei migranti che attraversano migliaia di chilometri per giungere in Europa. D’altronde, accettare di vedere questo “Altro” come un “Io” vorrebbe dire affrontare la fame di un digiuno che non sappiamo quando avrà termine, la sete del deserto sconfinato, il caldo asfissiante, il freddo che trafigge le nostra ossa, le torture indicibili che strappano al nostro corpo la dignità di dirsi “nostro”. «Nono» dice la nostra coscienza «rimanete pure laggiù. Io con tutto questo non mi ci voglio misurare. Io non sono così, e comunque ho già i miei problemi.»
Forse è anche per questo motivo che ci è stato così facile aprire le porte per i rifugiati ucraini. Loro sì che sono come noi. Sono cittadini di un Paese europeo. Milioni di persone che sono costrette a lasciare le loro case, il loro lavoro, la palestra, il bar, il ristorante, gli amici… e quella minaccia ci appare così vicina se dovessero crollare loro! Sì, voi venite pure, ucraini, fratelli di terra. Ma voi, voi che siete così stranieri, così diversi, così Altri… voi clandestini state bene lì, nell’abisso del mare, dove Io non possa guardarvi.
Una finestra aperta sull’Altro
La coscienza, che forma la nostra idea di identità (nazionale o personale), si basa su una struttura chiusa e apparentemente ben definita, che si isola e si difende dall’esterno, dalla diversità dell’Altro che minaccia le sue sicurezze. Tuttavia, questa convinzione di indipendenza e autonomia si rivela come pura illusione, nel momento in cui la si scopre come reazione a un forte sentimento di paura verso l’ignoto e il diverso (nell’Io e nell’Altro). Per allontanare questa paura abbiamo dovuto imparare a misconoscere, dimenticare il nostro corpo, che è la dimensione di apertura verso l’alterità. L’Io, così inteso, diventa quindi un enorme castello, senza finestre e senza porte, per nulla differente da una prigione. Ma la psicoanalisi, che per certi versi ha contribuito a una simile costruzione, può farsi pratica di libertà, solo nella misura in cui diviene mezzo per svelare la profonda differenza che già abita in noi senza addomesticarla, accettandola. Così, il corpo riacquisterebbe la dimensione che gli spetta: quella dell’apertura verso l’alterità, che ci influenza e rimodella liberamente; quella di una finestra che getta lo sguardo sulla vita, un mare di possibilità che già chiama il nostro nome a bordo di un barcone.