Per ora ci osserviamo tutti, dietro gli attimi delle nostre storie su Instagram, asserragliati in casa mentre consumiamo i fili dell’Internet per convivere, nel tempo di questa quarantena, con lo staticismo domestico. I più resilienti cercano di fantasticare un contatto con gli amici o fidanzate rimaste al largo, mediante videochiamate o catene di messaggi Whatsapp. Gli studenti, invece, vivono in questi giorni la tanto sognata terra promessa: poter seguire la lezione dalla propria camera, magari anche in pigiama.
Il potere della tecnologia digitale è accorciare le distanze, renderle malleabili, comprimerle nelle pareti del virtuale. Lo ripetiamo da giorni, se non da anni. In questo nuovo mondo disegnato dai social network e dalle connessioni ultraveloci, lo spazio vicino e lo spazio lontano si parlano fino a quasi toccarsi.
Già la telefonia aveva compiuto un primo passo verso la compressione delle distanze. Ma oggi, con decine di opportunità diverse, è possibile accorciare le distanze ulteriormente, e vedersi, confessarsi, parlare, giocare con un amico distante chilometri, e che magari si trova seduto sul divano del suo appartamento in una città o in un Paese ben lontani.
Se questo avrà delle ricadute sul piano emotivo, relazionale ed esistenziale non ci è concesso ancora saperlo, ed ogni pronostico o tentativo futurologo coi piedi poggiati sulle nuvole è solo una mera, becera speculazione. Quel che invece potrebbe venire modificato in qualche modo è la concezione del nostro spazio, vicino e lontano. Perché l’uso dei social e degli smartphone non è limitato solo al periodo della quarantena, ma un processo che va avanti da tempo.
Il totalitarismo digitale che invade la sfera del quotidiano ha indubbiamente un effetto sui nostri cervelli.
La migliore peculiarità del nostro sistema nervoso, infatti, è proprio la sua capacità di modificarsi, la sua plasticità intrinseca: ogni comportamento, infatti, protratto nel tempo causa dei riarrangiamenti cerebrali in termini di connessioni sinaptiche. Se i comportamenti maturati ed effettuati nella quarantena si trasformeranno in abitudini vorrà anche dire che un rinnovamento sinaptico coinvolgerà certe aree del cervello. In particolare, sarà la nostra percezione della distanza e il modo in cui viviamo lo spazio a cambiare sensibilmente.
Prima di tutto, come il nostro cervello distingue lo spazio lontano e lo spazio vicino? Com’è che si accorge che il computer su cui sto scrivendo è vicino e invece il telefono nell’altra stanza è per lui lontano? Su quale regola, insomma, sceglie di definire uno spazio come lontano anziché come vicino?
Le neuroscienze spiegano che il cervello considera un oggetto come vicino quando siamo in grado di raggiungerlo ed effettuare un’azione di qualunque tipo su di esso. Il cervello è come se disegnasse uno spazio lontano impossibile da raggiungere, ed uno spazio vicino raggiungibile su cui compiere un’azione con uno scopo (spazio di reaching).
Un tool per ghermirli, un tool per accorciare le distanze
Ogni qual volta che un oggetto, da lontano, diventa vicino, quindi raggiungibile, si ha come una ricodifica neuronale dello spazio, il quale viene ricalibrato ed esteso fino ad includervi lo spazio precedentemente considerato lontano. Questo può capitare sia perché l’oggetto si sposta e viene verso di noi sia perché siamo noi a spostarci incontro all’oggetto. Oppure, e questo è il caso su cui preme far riflettere, il riarrangiamento spaziale può avvenire quando si utilizza un cosiddetto tool, cioè uno strumento, in modo da riuscire a toccare, manipolare e portare vicino al corpo l’oggetto tanto desiderato. Avviene la stessa cosa, quando spaparanzati sul divano cerchiamo di agguantare il telecomando che ci osserva immobile sul tavolino del soggiorno senza alzarci in piedi.
Quello che modula la codifica spaziale nei neuroni è lo scopo. Lo strumento, il tool è un proprio braccio, un proprio piede, o un altro oggetto capitato a tiro, tipicamente dalla forma di un bastone, ma può essere qualsiasi cosa, a patto di utilizzarla con lo scopo di raggiungere l’oggetto bersaglio delle nostre attenzioni.
Ma il tool può essere molto di più di un oggetto fisico del quotidiano.
Se, ad esempio, indossassi un guanto, pieno di sensori, attraverso cui posso comandare a distanza una pseudo-mano robotica ed afferrassi un oggetto, raggiungibile solo per la mano robotica e non per la mia, il tool sarebbe l’interfaccia totale, che mi permette di ricodificare lo spazio raggiungibile allargandolo fino all’oggetto afferrato solo dalla mano robotica. In realtà, urge una precisazione: il rimappaggio spaziale avviene solo nel momento in cui la mano robotica è embodizzata, ovvero se viene interiorizzata come parte del proprio corpo.
Questo significa, che i nostri corpi, il confine della nostra pelle, sono un’interfaccia tra il nostro cervello e l’ambiente circostante.
La corporalità di quest’interfaccia risulta particolarmente evidente oggi in questo periodo di assenza forzata dei contatti sociali che rende impossibile toccare il proprio amico o collega quando gli parliamo in videochiamata, che annulla ogni carezza, ogni sussurro, ogni bacio al proprio amato o alla propria amata, pur vedendoli e udendoli entrambi nitidamente sullo schermo dell’iPad, dello smartphone o del pc.
In fondo, come la nostra pelle, e come il guanto robotico, gli smartphone non sono null’altro che tool, strumenti, interfacce tra noi e il mondo circostante, con cui raggiungere e percepire vicino una costellazione non solo virtuale di amici, colleghi, insegnanti, parenti, persone sconosciute, amanti, e oggetti.
Se è vero poi che a volte tutto questo impeto liquefatto di realtà digitale ci sfianca e ci stritola dentro pareti invisibili zuppe di pericoli, altre volte può letteralmente accorciare le distanze, salvarci dall’isolamento, dalla noia e costruire, per il bene collettivo, comunità di persone che altrimenti nella vita fisica non si sarebbero mai conosciute.
Axel Sintoni