Michele Marsonet
Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane
In memoria di Henry Kissinger, da professore universitario a consulente di politica estera, fino a diventare il 56° Segretario di Stato degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Nixon e poi Ford. La sua abilità nel bilanciare il realismo politico con un approccio pragmatico alla diplomazia lo ha reso una figura di rilievo nel panorama internazionale.
All’età di 101 anni è mancato Henry Kissinger. Rammento una delle sue ultime opere, il ponderoso libro “Ordine mondiale”, edito in Italia da Mondadori. Un volume che supera le 400 pagine, nel quale storia, geopolitica e filosofia della storia si mescolano in un dosaggio sapiente, frutto del resto della vastissima cultura del personaggio.
In effetti Kissinger non ha mai nascosto di considerarsi un accademico “prestato” alla politica. Pupillo di Nelson Rockfeller e segretario di Stato con Richard Nixon, ha senza alcun dubbio lasciato un’impronta indelebile nella politica estera e nella diplomazia americana del XX secolo. Tuttavia ha sempre sottolineato che, dal suo punto di vista, l’attività d’insegnamento e di ricerca svolta alla Harvard University per decenni è il lavoro che più ha amato, anche perché gli ha fornito le basi per impostare la sua condotta negli anni che lo videro protagonista sulla scena mondiale.
Il concetto di “ordine mondiale” è al centro degli interessi kissingeriani sin dagli albori della sua carriera accademica, quando si laureò a Harvard con una tesi di dottorato su Metternich e il Congresso di Vienna. Detto ordine non è però, a suo avviso, una condizione permanente del genere umano. Va piuttosto costruito con sagacia e pazienza con un abile gioco di “do ut des”, consci del fatto che, per ottenerlo, occorre fare concessioni tanto agli alleati quanto agli avversari. E, se l’operazione non riesce, è lecito attendersi la deflagrazione di un conflitto che potrebbe determinare la fine della civiltà.
L’alternativa all’ordine mondiale è ovviamente il disordine, giusto la situazione in cui ora ci troviamo. Come altri studiosi Kissinger era un nostalgico della Guerra Fredda, di quel periodo, cioè, in cui le due superpotenze USA e URSS, pur in aperta e aspra contrapposizione ideologica e militare, riconoscevano che il ricorso alle armi atomiche avrebbe sancito il collasso di entrambe. Proprio per questo riuscirono a trovare un modus vivendi basato sul celebre equilibrio del terrore.
I conflitti, che pur c’erano, venivano confinati in ambito locale (basti pensare a Corea e Vietnam), senza lasciare che debordassero arrivando allo scontro diretto. Con questo l’ex segretario di Stato non escludeva che un’unica superpotenza potesse giungere a dominare il globo. Per farlo, tuttavia, deve possedere una superiorità militare così schiacciante da costringere gli avversari ad accettare la sua visione dell’ordine mondiale. Inutile aggiungere che, allo stato dei fatti, egli non considerava plausibile tale eventualità.
Com’è noto Kissinger era un fautore del realismo politico o “realpolitik”. Per restare in ambito statunitense, giudicava la politica estera americana dominata da due grandi correnti di pensiero. Da un lato, per l’appunto, il realismo politico, con principale esponente Theodore Roosevelt. Il realista si fa guidare nell’azione dagli interessi nazionali e dalle preoccupazioni di geostrategia. Dall’altro l’idealismo politico, incarnato da Woodrow Wilson. L’idealista, al contrario, ritiene che la politica estera debba innanzitutto realizzare nella pratica una “missione morale”. Si deve inoltre notare che le due correnti appena citate sono presenti in entrambi i grandi partiti americani. E’ errato pensare che un repubblicano sia ipso facto realista e un democratico automaticamente idealista.
La predilezione kissingeriana per il realismo nasce dalla constatazione che, nella storia, ogni potenza dominante ha avuto bisogno della forza militare per imporsi, e senza eccezioni. Di qui le sue considerazioni pessimistiche sull’attuale Unione Europea, nella quale “il processo di integrazione è stato gestito come un problema sostanzialmente burocratico di aumento di competenze dei vari organismi amministrativi europei”. I problemi economico-finanziari sono, in pratica, gli unici considerati degni d’attenzione a Bruxelles. La gestione della politica estera e, soprattutto, di quella militare è stata demandata pressoché in toto agli Stati Uniti. Ciò detto risulta difficile prevedere che la UE possa giocare un ruolo di grande potenza autonoma nello scacchiere mondiale.
Ma nel libro lo sguardo si allargava necessariamente al contesto extraeuropeo. Interessanti le considerazioni sulla Cina che sta tentando in vari modi d’impostare un nuovo ordine mondiale, diffondendo l’idea di una società gerarchica di marca confuciana. Per quanto riguarda la Russia, Kissinger non notava grandi cambiamenti rispetto al periodo zarista. A cavallo tra Europa e Asia, questo Paese immenso e sottopopolato ha bisogno di mantenere una costante spinta espansiva per autodefinirsi quale nazione destinata a giocare un ruolo importante nella politica internazionale. Più carente, invece, l’analisi del mondo islamico del quale Kissinger sottolineava troppo l’unitarietà.
L’ex diplomatico vedeva ancora nella Pace di Vestfalia, negoziata in Europa nel XVII secolo, un modello insuperato e da imitare, con il suo sistema di pesi contrapposti che impediva a ognuna delle potenze di allora di prevalere in modo troppo netto sulle altre. Resta da capire, però, se un simile modello possa davvero funzionare anche ai giorni nostri, considerata l’entrata in scena di tanti nuovi attori e l’accorciamento delle distanze dovuto alla globalizzazione.
Kissinger era convinto che a un nuovo ordine mondiale si dovrà arrivare, per convinzione o costrizione, l’unica alternativa sarebbe il caos. Ed era convinto, altresì, che la “eccezionalità” degli Stati Uniti sarà confermata anche in futuro per la mancanza di concorrenti plausibili. Non mancava però di invocare maggiore attenzione per le specificità culturali di Paesi che stanno acquistando un’importanza crescente nella “balance of power”. E, com’era lecito attendersi, non mancava nemmeno la polemica – per quanto velata – contro l’idea di esportare ovunque la democrazia e contro l’approccio idealistico adottato, per esempio, nel caso delle primavere arabe.
Come notavo all’inizio, il suo è anche un libro di filosofia della storia. Alcuni commentatori hanno rilevato nelle sue pagine l’influenza di Oswald Spengler e di Arnold Toynbee, autori peraltro studiati da Kissinger con molta attenzione in passato: “la celebrazione di principi universali – scriveva nel capitolo conclusivo – deve accompagnarsi a un riconoscimento delle storie e delle culture di altre regioni”. Meno Kant, insomma, e più Edmund Burke (per citare un solo nome).
Notevoli pure le frasi finali. Scriveva infatti: “Molto tempo fa, in gioventù, ero tanto sconsiderato da credermi in grado di pronunciarmi sul ‘significato della storia’. Oggi so che il significato della storia è una cosa da scoprire, non da proclamare”. Non esistono dunque ricette infallibili né predizioni certe, nella storia come in ogni altro ambito dell’agire umano.