In questi giorni si sta svolgendo la settimana della moda a Parigi, che concluderà il cosiddetto Fashion Month, il mese dedicato alle sfilate nelle principali capitali della moda del mondo (New York, Londra, Milano e Parigi). Ma non siamo qui per parlare dei trend per la prossima stagione autunno-inverno 2018/2019; vorremmo piuttosto soffermarci sull’impatto della moda sull’ambiente.
Per emissioni ed inquinamento prodotti al primo posto c’è l’industria petrolifera e, subito dopo di lei, quella della moda che, a livello mondiale, genera emissioni di anidride carbonica pari a un miliardo e 200 milioni di tonnellate all’anno, superiori a quelle di tutto il traffico aereo mondiale. Allarmante, vero? Ma questo è solo l’inizio. Con la diffusione del fast fashion (letteralmente ‘moda veloce’ o ‘moda rapida’, definizione ispirata da fast food) l’impatto della moda sull’ambiente ha avuto un incremento notevole negli ultimi decenni. Un tempo c’erano due stagioni nella moda: primavera/estate e autunno/inverno e così erano organizzate le sfilate. Con l’avvento di catene di abbigliamento low cost come Zara, H&M, Bershka, Mango ecc., ormai non ci sono più limiti di stagione: in un anno ci sono 52 settimane e così per loro ci sono 52 settimane della moda, ossia, ogni settimana propongono ai clienti vestiti, scarpe e accessori sempre nuovi, per stare continuamente al passo con i trend del momento.
Ora, produrre vestiti ininterrottamente per 365 giorni all’anno non è cosa da poco e richiede ritmi ai limiti dello sfinimento. Le aziende citate sopra producono i propri prodotti in Paesi sottosviluppati, avvalendosi di una manodopera a basso costo e di strutture fatiscenti, in cui le condizioni igienico-sanitarie sono totalmente assenti, difatti spesso crollano o prendono fuoco, dando vita a vere e proprie tragedie. Inoltre, in queste ‘fabbriche’ non ci sono sistemi di discarica per i prodotti chimici usati nella tintura delle stoffe, né tantomeno è previsto alcun tipo di smaltimento dei rifiuti generati. Ogni singola fase della produzione legata alla moda ha un diverso impatto sull’ambiente per l’inquinamento causato, l’acqua consumata e il petrolio adoperato. Lo dimostrano diversi documentari, tra cui uno del 2015 intitolato The True Cost.
Questione di fibre
Innanzitutto, la scelta delle fibre usate dall’industria tessile ha sempre dei pro e dei contro. Le fibre più utilizzate sono quelle sintetiche, in particolare il poliestere, un composto della plastica che non si degrada neanche dopo lo smaltimento. Inoltre, ogniqualvolta si lavano vestiti in poliestere, vengono rilasciate nell’acqua tantissime minuscole fibre non visibili ad occhio nudo e indistruttibili. Attraverso l’acqua arriveranno fino al mare, dove saranno ingerite da piccoli organismi come il plancton, a loro volta mangiati da pesci più o meno grandi che, prima o poi, finiranno sulle nostre tavole. Insomma, noi diamo inizio a questo circolo e noi lo concludiamo: inquiniamo le acque che, a loro volta, finiscono per inquinare ciò di cui cibiamo, inquinando noi stessi.
E se invece si adoperano fibre naturali? Le cose non vanno molto meglio: per produrre il cotone è necessario l’impiego del 2,5% delle terre arabili del pianeta e per coltivarlo bisogna impiegare grandi quantità di pesticidi e acqua. Passando poi alla sua lavorazione, è necessaria una maggiore energia rispetto alle fibre sintetiche; anche quelle organiche non sono da meno sotto questo aspetto. Dunque, a livello d’impatto ambientale, le fibre naturali si rivelano quasi peggiori delle sintetiche.
Da alcuni anni, c’è chi sta pensando a delle possibili soluzioni alternative, ovvero produrre fibre usando residui e scarti di altri prodotti, come i residui della lavorazione di vino e birra, le noci di cocco, zucchero e lievito o proteine del latte. Oppure c’è chi ricicla la plastica e altri rifiuti per poterne trarre fibre tessili, resistenti all’usura e alla prova del tempo.
I rifiuti della moda
Sono sicuramente soluzioni originali ed interessanti, ma ci vorrà del tempo prima che si affermino e si diffondano in tutta l’industria della moda, nel mentre si continueranno a comprare nuovi vestiti buttandone altri. Si è calcolato che ogni secondo venga buttato “l’equivalente di un camioni carico di vestiti”, dove andranno mai? In una discarica o in un bruciatore. Eppure si potrebbero riciclare, ma in Italia solo il 12% dei rifiuti legati all’abbigliamento viene riciclato, in media 1,6 kg a persona. Troppo poco per troppi vestiti. Ecco, a questo si dovrebbe puntare: produrre meno rifiuti possibili anche nell’ambito della moda, con il riciclo o, ancor più semplicemente, comprando meno vestiti e indossando quelli già posseduti per più tempo. Solo così si potrà davvero ridurre l’impatto della moda sull’ambiente.
Carmen Morello