“Immunità. Vaccini, virus e altre paure”, appena pubblicato da LUISS University Press nella traduzione di Albertine Cerutti, è un libro spiazzante. Sulla carta, si tratta di un saggio su uno dei più attuali temi in materia di salute della pluripremiata autrice di non-fiction americana Eula Biss. Avventurandosi tra le pagine, però, ci si confronta piuttosto con un’esplorazione dell’immaginario collettivo intorno a medicina, malattia e immunità avvincente come un romanzo. La studiosa, infatti, non si limita a dialogare con una ricchissima messe di riferimenti tratti dalla cultura umanistica non meno che dalla letteratura scientifica. L’indagine, al contrario, mette in gioco globalmente la sua esperienza di cittadina, di donna e di madre. Di persona che, interrogandosi sulle proprie scelte di genitore, ragiona sulle dinamiche fondamentali, etiche e politiche quanto sanitarie, del vivere collettivo da una prospettiva inedita.
Immunità è un saggio con una rara caratteristica: leggendolo in silenzio e con attenzione, è possibile captare un respiro, un battito cardiaco tra le pagine. Ciò accade quando il ragionamento di chi scrive scandaglia la realtà e la cultura a partire dall’esperienza viva e con quest’esperienza come costante riferimento. Nel caso del testo di Eula Biss, si tratta dell’esperienza spaventosa ed esaltante di essere genitori. Quelle che scrive a proposito dell’assoluta necessità e dell’altrettanto assoluta impossibilità di proteggere un figlio da ogni male potrebbero essere le parole di ogni madre:
quello dell’immunità è un mito, e non esiste mortale che possa diventare invulnerabile. Una verità che facevo meno fatica ad accettare prima di diventare madre. La nascita di mio figlio ha portato con sé un senso esagerato di potenza, così come di impotenza. […] Quando mio figlio era neonato, mi capitò di ascoltare molte variazioni sul tema “l’unica cosa che importa è proteggerlo”. Mi domandavo se questa fosse davvero la cosa più importante, e quasi altrettanto spesso mi domandavo se sarei stata in grado di proteggerlo. […] Se cerco un sinonimo di proteggere, il mio dizionario suggerisce, dopo scudo e rifugio e mettere al sicuro, un’opzione finale: vaccinare. Quando è nato mio figlio mi sono posta questa domanda: devo vaccinarlo? Per come la pensavo allora, il problema non era tanto se così lo avrei protetto a sufficienza. Era piuttosto se la vaccinazione fosse un rischio che valeva la pena di correre.
Figlia di una poetessa, Biss ha ben presente il monito che Rainer Maria Rilke rivolgeva a Franz Xaver Kappus nelle Lettere a un giovane poeta: «Vivi ora le domande». E, figlia di un medico, sa che il dovere di «vivere le domande che i nostri figli sollevano per noi» si concretizza, in quest’ambito, nell’informarsi. Nel fare ricerca e porre domande agli esperti, ma anche nel cercare di capire le resistenze e la viva opposizione ai vaccini nel dibattito pubblico.
Biss ravvisa un elemento paradossale nel dibattito sull’opportunità della vaccinazione nel suo contesto di riferimento, cioè la classe media americana bianca:
I timori connessi ai vaccini non paiono placarsi facilmente, a dispetto di un’importante serie di analisi sui rischi e sui benefici. La diffidenza resta, anche se queste analisi ci rassicurano sul fatto che i benefici sono di gran lunga superiori ai danni.
Qual è il motivo? Supportata dagli studi dello psicologo Paul Slovic, la studiosa osserva che
la percezione del rischio potrebbe non riguardare tanto il pericolo quantificabile quanto invece la paura, che è incommensurabile. Sui nostri timori influiscono la storia e l’economia, il potere o lo stigma sociali, i miti e gli incubi. E, come succede con le salde convinzioni, siamo loro affezionati. Allorché ci imbattiamo in un’informazione che contraddice ciò di cui siamo convinti tendiamo a mettere in dubbio l’informazione piuttosto che noi stessi.
E una convinzione diffusa, quando si tratta di vaccini, è che essi possano contaminarci, lasciandoci segnati per sempre. Perché mai si dovrebbe correre un simile rischio o farlo correre a chi si ama?
Anzitutto, è da vedere se tale convinzione sia effettivamente fondata. Abbiamo ragione di credere che la vaccinazione sia più mostruosa della malattia? Secondo l’autrice, si tratta di un problema di immaginario più che di medicina.
Dialogando con lo studio di James Geary I Is an Other, Biss rileva che
Il corpo ci fornisce materia per le nostre metafore. E le nostre metafore ci predispongono a un certo modo di pensare e di agire. Se la nostra visione del mondo origina dal corpo, è inevitabile che anche le vaccinazioni assumano un valore simbolico. L’immagine di un ago che fora la pelle iniettando una sostanza estranea direttamente nella carne è talmente forte da provocare, in alcune persone, lo svenimento. In un simile gesto leggiamo metafore spaventose, addirittura sconvolgenti, che quasi sempre richiamano un’idea di violazione, corruzione, contaminazione.
Né è l’immaginario legato al corpo proprio l’unico a essere coinvolto. Infatti, sostiene Biss, «i dibattiti sui vaccini vengono presentati come discorsi sull’etica della scienza. Ma potrebbero essere concepiti in termini di discussioni sul potere». Discussioni presenti a ogni livello, dalle aule dell’università e i salotti intellettuali al confronto informale con altri genitori:
uno dei temi ricorrenti nelle chiacchierate tra mamme era che la stampa è una fonte inaffidabile. Che l’azione del governo è inadeguata. E che le grandi industrie farmaceutiche stanno corrompendo la medicina. […] Non era un bel momento per la fiducia. [..] Non sembrava affatto inverosimile che il Governo intendesse dare la precedenza agli interessi delle grandi aziende piuttosto che al benessere dei cittadini.
Rifiutare la vaccinazione, dunque, appare a molti una rivendicazione dei diritti sul proprio corpo e un atto di resistenza a un sistema corrotto e inaffidabile. Tuttavia, le cose stanno veramente così?
«Il rifiuto della vaccinazione», afferma Biss, «mette a repentaglio un sistema che, a dire il vero, non è tipico del capitalismo. Si tratta infatti di un sistema dove oneri e benefici sono condivisi dall’intera popolazione. La vaccinazione ci consente insomma di usare i prodotti del capitalismo per obiettivi che contrastano le pressioni del capitale».
Ciò risulta evidente allorché si osserva il meccanismo di funzionamento del vaccino non dal punto di vista del singolo individuo, ma dell’intero gruppo. La vaccinazione, infatti, funziona reclutando una maggioranza a protezione di una minoranza particolarmente vulnerabile a una specifica malattia. In altre parole: «tramite noi, letteralmente tramite i nostri corpi, vengono attivate certe misure sanitarie». È questo, nel senso più proprio, il significato dell’espressione – divenutaci dolorosamente familiare con la pandemia in corso – “immunità di gregge“. Infatti,
Se consideriamo un vaccino per come agisce sul corpo collettivo di una comunità, la vaccinazione ci apparirà come una sorta di deposito bancario di immunità. I contributi versati a questa banca rappresentano elargizioni a favore di coloro che non possono o non vogliono affidarsi in prima persona alla protezione immunitaria. Questo è il principio dell’immunità di gregge, grazie alla quale la vaccinazione di massa si rivela molto più efficace di quella individuale. […] *quando si vaccina un numero sufficiente di persone, anche con un vaccino relativamente inefficace, i virus hanno difficoltà a passare da un portatore all’altro. Così, cessano di diffondersi risparmiando sia i non vaccinati sia colore che non sono stati immunizzati tramite la vaccinazione.
Perciò,
La persona non vaccinata viene protetta dai corpi che le stanno attorno, in cui la malattia non circola. Al contrario, una persona vaccinata circondata da corpi portatori della malattia resta esposta al rischio di insuccesso del vaccino o al venir meno dell’immunità. A proteggerci non è tanto la nostra pelle, quanto quello che sta al di là di essa. È qui che i confini tra i nostri corpi cominciano a dissolversi. […] L’immunità è sia un fondo di investimento comune sia un conto privato. Quelli di noi che attingono all’immunità collettiva sono debitori della propria salute nei confronti di coloro che li circondano.
«L’immunità di gregge, che è un fenomeno osservabile, può sembrare oggi inverosimile», scrive Biss, «solo qualora pensiamo ai nostri corpi come separati dai corpi altrui. Cosa che, ovviamente, facciamo.»
Infatti,
immaginiamo i nostri corpi come proprietà isolate di cui ci possiamo prendere cura bene oppure male. Questo modo di pensare suggerisce che lo stato di salute della proprietà accanto alla nostra non ci deve preoccupare allorché la nostra è ben tenuta.
Il problema con questo punto di vista è che non tiene conto della costitutiva interdipendenza che ci lega a livello biologico, culturale e sociale. Noi, afferma la scrittrice con un’espressione efficacissima, «siamo debitori gli uni gli altri dei nostri corpi». Pertanto, abbiamo una responsabilità gli uni verso gli altri. Una responsabilità che fa osservare a Biss:
rifiutare l’immunità come forma di disobbedienza civile presenta un’inquietante somiglianza proprio con quel modello che il movimento Occupy cerca di scardinare. Cioè l’ 1 per cento dei privilegiati resta al riparo dal rischio mentre estrae le risorse del restante 99 per cento.
Pur essendo un certo cinismo giustificato, conclude Biss, la paranoia non può esserlo, soprattutto quando si tratta della salute. Infatti, «ritenere le forze del capitalismo come leggi innate della motivazione umana e che tutti si vendano significa essere diventati poveri per davvero». Una povertà che, nel pensare al lavoro di medici e ricercatori, lo stiamo vedendo con la pandemia in atto, può avere esiti terrificanti.
Per il bene del singolo e della società, non teme di affermare Eula Biss, la vaccinazione, salvo particolari patologie, è la scelta migliore. Infatti,
certi vaccini generano un’immunità collettiva superiore a quella individuale prodotta da quegli stessi vaccini. Ciò lascia intendere che quello politico non è solo un corpo, ma anche un sistema immunitario in grado di proteggersi nel suo insieme. Alcuni di noi suppongono che ciò che fa bene al corpo politico non possa far bene a quello naturale. Che gli interessi di questi due corpi debbano per forza essere in contrasto tra loro. Spesso, però, il lavoro di epidemiologi e immunologi e perfino di matematici suggerisce altrimenti. Ogni genere di analisi del rapporto rischi-benefici e di modelli di immunità di gregge evidenzia che la vaccinazione giova all’individuo tanto quanto al soggetto pubblico.
Visti in questa ottica, immunità e vaccini risultano fenomeni nuovi, che meritano di essere studiati anche dal punto di vista etico-politico.
La posta in gioco, infatti, è la possibilità di restituire significato a concetti preziosi e in affanno come quello di “comunità“:
il giardino nel quale lavoriamo quando non siamo più ottimisti non rappresenta un modello di ritiro dal mondo, bensì un luogo dove coltiviamo il mondo. Se estendessimo la metafora del giardino al nostro corpo sociale, potremmo immaginare noi stessi come un giardino all’interno di un giardino. Il giardino esterno non è un Eden, e nemmeno un roseto. È bizzarro e vario come quello interno, costituito dai nostri corpi, nel quale ospitiamo funghi, virus e batteri di indole sia buona sia cattiva. Questo giardino è privo di confini e incolto, e vi crescono tanto frutti quanto rovi. Forse dovremmo chiamarlo terra selvaggia, o forse basta la definizione di comunità. Comunque decidiamo di pensare al corpo sociale, resta il fatto che ciascuno di noi rappresenta l’ambiente del suo prossimo. L’immunità è uno spazio condiviso: un giardino di cui ci prendiamo cura insieme.
Una pagina di ecologia delle relazioni la cui consapevolezza sembra lontana anni luce dal dibattito pubblico cui purtroppo siamo abituati. Tuttavia, con le nostre scelte informate e con le nostre prese di posizione, ci ricorda questo libro, possiamo sempre farci promotori di cambiamento.
Valeria Meazza