Arriva sempre un momento in cui ogni arte deve mettersi in discussione per sopravvivere. Il cinema non è indifferente a questo processo. Ma qual è la via da percorrere in questo momento? Kubrick stesso aveva visto la possibilità di un nuovo puritanesimo nel cinema che effettivamente ha ripreso piede, perfino nella concezione della struttura. La sceneggiatura è ridiventata il pilastro fondamentale.
Ma il cinema non è teatro. Non è nemmeno letteratura. Il cinema è l’arte più completa di tutte perché raccoglie in sé tutte le tipologie e le sfumature dello spirito precedenti. Non è quella superiore perché non ci può essere classifica tra le arti: Leone sta a Michelangelo proprio come Kubrick sta ad un Leonardo o Buñuel a Voltaire. Non c’è classifica, solo talento puro. Ma quando si tratta di registi, noi non ricordiamo le loro opere principalmente per le parole: le ricordiamo per le loro immagini.
Per discutibile che sia in tutto il resto, Derrida coglie il bersaglio quando dice che “l’immagine ha sempre l’ultima parola”. Nel cinema questa frase dovrebbe essere la parola d’ordine. Almeno lo è per Peter Greenaway.
Il geniale regista gallese ha alle spalle una lotta ininterrotta contro il cinema narrativo. L’immagine abbatte secondo lui già i limiti del dipinto, che dona terreno fertile alla settima arte con distanza di secoli: i primi registi per lui sono Caravaggio, Velazquez, Rubens, Rembrandt e non potrebbe essere altrimenti per la forza barocca, pulsante della carne nelle loro tele, la composizione dei corpi, il gusto del dettaglio visivo che è vita al calore bianco. L’unica cosa che manca loro è la musica.
Lo sceneggiatore Umberto Contarello, tra i migliori del nostro paese, collaboratore di Sorrentino, ha ribadito il concetto in un’intervista recente: “Il vedere è estremamente più potente (del dire). È il territorio inesplorato e vergine. Il dire ci ha allevato ma ha perso la sua spinta propulsiva”
Tra i registi che stanno esplorando il terreno della pura visione bisogna segnalare il famigerato, violento e psichedelico Gaspar Noé con il suo Enter the void, oltre i già conosciuti e (più che giustamente apprezzati) autori contemporanei.
La prova del nove per i nuovi registi sarà quella di cercare una nuova via di espressione, lontana dalla cura della sceneggiatura. Non conta cosa si fa, ma come lo si fa. La parola, il soggetto, se restano pilastri, devono diventare giocattoli che la cinepresa storna nella direzione decisa.
E come molto spesso accade, il mezzo prende vita e mostra ciò che l’autore non era riuscito a vedere. Questo è qualcosa che nelle accademie americane di cinema, in Tarantino e nei nuovi esordienti della sua “scuola”, viene a mancare a favore di dialoghi serrati e costruiti in ogni dettaglio. Django Unchained è la prova di ciò che stiamo dicendo.
Il cinema, che sta facendo un ottimo stretching nel campo televisivo, deve catturare nuovi modi per raccontare l’interiorità e la Natura nel gioco con il Tempo.
Il nostro tempo cerca un’esperienza più completa, intravista, per l’ironia della sorte, anche da chi non aveva nulla a che vedere con il cinema. Si può dire che i grandi teorici della cinepresa siano due: Bazin e Wagner.
Il primo con l’occhio verso la realtà, il secondo verso l’opera d’arte totale. Sono questi i due stimoli per il nuovo cinema: l’occhio per il dettaglio empirico ed il ritmo musicale sopra ogni cosa. Welles, Fellini e Leone sono stati in questo i massimi e gli apripista. Nella scia di questo filone possiamo contare gli underground più violenti, perfino il grande William S. Burroughs con i suoi psichedelici Cut-ups, filmati sperimentali del 1966.
Perfino chi ha voluto distruggere il cinema, come Carmelo Bene, ha auspicato alla venuta di una grazia, di un solfeggio, di un Rossini dell’immagine, una libertà dalla seriosità della narrazione spessa, quasi replicante il romanzo ottocentesco. In fondo, il cinema non vuole storie scritte ma viste, sentite nel rapimento dell’occhio, del movimento e del montaggio. Di sicuro arriveremo a quel punto definitivamente. Già i segni sono intorno a noi. Ma il passo definitivo dovranno farlo i futuri registi.
Antonio Canzoniere