L’immaginario della disabilità è caratterizzato da tre archetipi ricorrenti: il cattivo, la vittima e l’eroe. Questi modelli, radicati nella cultura popolare e nelle narrazioni quotidiane, riducono l’esperienza della disabilità a simboli limitanti, incapaci di rappresentarne la complessità. Superare questi schemi non è solo una questione di narrazione, ma un passo fondamentale verso una società più inclusiva.
L’immaginario della disabilità
La disabilità, in quanto condizione dell’umano, ha sempre avuto un posto all’interno delle nostre narrazioni. Miti, leggende e favole prima; romanzi, film e serie tv dopo, hanno contribuito alla creazione di uno specifico immaginario della disabilità.
In quanto contenitore di idee, simboli e rappresentazioni, l‘immaginario collettivo influenza profondamente, spesso inconsciamente, il nostro modo di percepire e interpretare il mondo, noi stessi e gli altri. Può arrivare a guidare i nostri comportamenti, contribuire alla costruzione della nostra identità e può essere una leva per il cambiamento sociale.
L’immaginario della disabilità può quindi essere una forza potente in grado di rinforzare o modificare le strutture di potere, condizionando il modo in cui la società vede e tratta le persone con disabilità.
Tuttavia, nonostante enormi passi avanti siano stati fatti negli ultimi anni, l’immaginario della disabilità è ancora in gran parte occupato da immagini e simboli antiquati e limitanti. Ampliarlo verso rappresentazioni più rispettose e aderenti alla realtà richiede tempo, specialmente perché si tratta di decostruire secoli di narrazioni.
Gran parte delle rappresentazioni della disabilità sono state articolate intorno a tre archetipi principali, adattati ai tempi che cambiano ma identici nei loro nuclei centrali di significato: il cattivo, la vittima e l’eroe. Questi archetipi non sono limitati alle storie di finzione, ma guidano spesso anche il racconto giornalistico, contribuendo a dare della disabilità un’immagine limitata e non sempre aderente alla realtà.
L’immaginario della disabilità: il cattivo
Quello del cattivo è l’archetipo più dannoso quando viene legato alla disabilità. In molte narrazioni si cerca di mostrare l’assenza di moralità del personaggio attraverso le sue caratteristiche fisiche. Cicatrici, volti sfigurati, protesi, dispositivi per la respirazione concorrono alla categorizzazione di personaggi antagonisti, contrapposti alla perfezione fisica dell’eroe.
È il caso di molti dei “cattivi” nella saga di James Bond: Dottor No perde le mani e le sostituisce con due protesi metalliche, Ernst Stavro Blofeld ha una vistosa cicatrice a coprirgli metà viso, Raoul Silva si identifica come cattivo solo quando rimuove la sua protesi, mostrando la logica che sta dietro a queste categorizzazioni in tutta la sua forza. La disabilità viene usata in questi casi per disumanizzare gli antagonisti, per allontanarli dalla “normalità”. La differenza fisica si fa riflesso di una corruzione interiore, associando tratti fisici non conformi a devianza morale e quindi alla pericolosità.
Si potrebbe obiettare che nessuna persona razionale connetterebbe automaticamente diversità fisica a pericolosità, ma qui la razionalità ha un ruolo ben più marginale di quello che ci piacerebbe pensare. Soprattutto perché l’archetipo compare anche nelle storie per bambini, rischiando di educare alla paura del diverso.
Un esempio è nel Re Leone, dove il terribile cattivo Skar è appunto un leone sfigurato e in cerca di vendetta. Lo stesso archetipo si ritrova nelle storie di pirati, primo tra tutti Capitan Uncino, celebre antagonista di Peter Pan privato di una mano. Anche Darth Vader di Star Wars può essere considerato un esempio di questo archetipo: non solo ha gli arti amputati, ma la sua stessa maschera è un supporto alla respirazione.
Sono solo coincidenze, si potrebbe obiettare di nuovo. Ma gli esempi non terminano con questa breve lista, e a dimostrazione della pervasività di questo simbolismo si può notare come sia trasversale ai generi e alle forme narrative.
Il Dottor Stranamore si muove con una sedia a rotelle, il Fantasma dell’Opera ha il viso sfigurato, Freddy Krueger ha delle vistose bruciature che gli ricoprono la faccia. Re Riccardo III d’Inghilterra fu realmente disabile, ma Shakespeare nel suo dramma portò all’estremo questa sua caratteristica per mostrarne la crudeltà.
Spesso è proprio la stessa disabilità a essere la causa della malvagità dei personaggi. Una disabilità non accettata, impossibile da accettare e che chiede solo vendetta. È il caso del Capitano Achab in Moby Dick, ossessionato dalla caccia alla balena che, nel difendersi, gli ha mozzato una gamba costringendolo a utilizzare una protesi.
L’archetipo del cattivo si delinea anche tutte quelle volte che l’assassino, il serial killer, il “mostro” di una storia crime o horror è una persona con una malattia mentale. Anche in questo caso la separazione deve essere netta, in nessun modo può il male nascere da qualcuno “sano” e “normale”. La cattiveria è propria di chi ha un cervello diverso, gli unici che possono far del male sono i folli. Che favola rassicurante. Dimostrata falsa da innumerevoli studi, ma pur sempre rassicurante.
La gravità di queste rappresentazioni è che riflettono credenze ancora radicate in molte società e gruppi sociali. La disabilità è ancora vista come una punizione divina, la persona disabile merita ciò che le accade, o lo merita la sua famiglia. Sono credenze diffuse in alcune parti dell’Africa, ma sopravvivono anche in occidente in gruppi religiosi fondamentalisti.
Infatti, la disabilità ricevuta come punizione compare in molti miti e fiabe antiche. Edipo si acceca per le sue colpe e la sua vergogna, il Principe di Raperonzolo, gettato giù dalla torre, si ferisce gli occhi con i rovi e perde la vista. La concezione della disabilità come colpa è ancora più evidente nella fiaba di Hans Christian Andersen del 1872 intitolata Lo Storpio. Il protagonista è un bambino molto intelligente nato senza la gambe e per questo motivo i genitori si rifiutano di farlo studiare, nonostante il suo desiderio di diventare un maestro. Verrà accontentato solo quando miracolosamente comincerà a camminare.
L’archetipo del cattivo scivola nella cronaca giornalistica ogniqualvolta si associa il crimine alla “follia”, al “raptus”. È una rappresentazione che interessa principalmente le disabilità psicosociali, associate alla devianza e alla pericolosità. Questi racconti contribuiscono al rafforzamento dello stigma verso chi convive con condizioni mentali atipiche, allontanando la possibilità di dialogo e comprensione.
L’immaginario della disabilità: la vittima
L’archetipo della vittima è ciò che (per una gran numero di persone non disabili) più rispecchia la realtà. La disabilità vista sempre e solo come un’enorme disgrazia, spesso la più grande di tutte. I personaggi con disabilità dipinti come vittime sono deboli, sofferenti, bisognosi dell’aiuto del protagonista eroe. Non hanno una caratterizzazione approfondita perché non sono importanti, servono più che altro come pretesti narrativi per mostrare la grandezza del protagonista e la sua crescita all’interno dell’arco narrativo, oppure semplicemente come simboli generici di sofferenza e dolore.
Il piccolo Tim del Canto di Natale di Dickens esiste solo per mostrare a Scrooge gli effetti della sua avidità, contribuendo a redimerlo. Raymond in Rain man è il catalizzatore per il cambiamento emotivo e morale di suo fratello Charlie, viene mostrato come dipendente e vulnerabile, senza una caratterizzazione che vada al di là della sua disabilità. Per Raymond non esiste riscatto finale, il suo arco narrativo gira in tondo e torna all’istituto iniziale, l’unico luogo in cui viene immaginata la sua vita.
The Elephant Man di David Lynch racconta la storia di John Merrick, un uomo con la sindrome di Proteo. John viene maltrattato, abusato e sfruttato per tutta la sua vita, fino a lasciarsi morire. Anche Quasimodo nel Gobbo di Notre-Dame è un personaggio poco caratterizzato utile solo a suscitare emozioni nei lettori/spettatori.
L’archetipo della vittima, così come gli altri, non è limitato alle narrazioni di finzione. È lo stereotipo che accompagna molti racconti giornalistici e molte conversazioni quotidiane. Si nutre del linguaggio pietistico con cui si racconta la disabilità come la più grande disgrazia possibile. Con cui, nonostante le buone intenzioni, si dipingono le persone disabili come sempre fragili, sempre vulnerabili, sempre bisognose. È il linguaggio che costruisce luoghi comuni attraverso i “ma come fa?”, “costretto su una sedia a rotelle”, “poverino”. Un linguaggio che spinge all’infantilizzazione della persona con disabilità e le toglie agentività.
L’immaginario della disabilità: l’eroe
Tuttavia, l’immaginario non si limita a rappresentare le persone con disabilità come fragili e vulnerabili. Al polo opposto troviamo l’archetipo dell’eroe: una figura apparentemente positiva. Questo modello esalta l’eccezionalità del personaggio con disabilità, ma solo a condizione che raggiunga standard straordinari, spesso irrealistici.
L’eroe è un archetipo insidioso. D’altronde che c’è di male a evidenziare l’eccezionalità di qualcuno? Il problema è quando questa eccezionalità è la precondizione per essere presi in considerazione dalla società. Vengono dipinti come eroi gli atleti paralimpici, come se le loro prestazioni sportive avessero un valore maggiore perché “ce l’hanno fatta nonostante tutto”. Vengono dedicati articoli di cronaca a persone con disabilità che si sono laureate o hanno un lavoro, come se fosse un fatto meritevole di essere raccontato in quanto eccezionale.
Nelle narrazioni di finzione, spesso la persona con disabilità diventa protagonista se la sua disabilità le conferisce un qualche super potere: Shaun Murphy in The Good Doctor è un medico autistico con la sindrome del savant, risolve i casi grazie alla sua memoria fotografica e all’attenzione per i dettagli. Lo stesso stereotipo si ritrova in centinaia di narrazioni crime, dove investigatori dai tratti atipici si guadagnano il proprio spazio solo a patto di essere geniali: Bones, antropologa forense nella serie omonima, Will Graham in Hannibal, Monk, Professor T, Astrid e Raphaëlle e innumerevoli altri fino al capostipite Sherlock Holmes.
Un altro filone narrativo è quello dei protagonisti che, nonostante una disabilità sensoriale, hanno gli altri sensi potenziati. Ne I Langolieri di Stephen King una ragazzina cieca è la prima a rendersi conto dei pericoli grazie alle sue percezioni extrasensoriali. Il cieco veggente è infatti un archetipo antichissimo, presente in molte mitologie da Tiresia alle Graie.
In alcuni casi la persona con disabilità è un vero e proprio super eroe: Daredevil, Professor X, Maya Lopez, Doctor Strange, Iron Man, Dottor Mid-Nite, Legione, Jericho. È la disabilità che si fa ispirazione e motivazione per chi una disabilità non ce l’ha: “se ce l’ha fatta lui/lei, ce la posso fare anche io”. Questa narrazione influenza negativamente le persone con disabilità nella vita reale, creando aspettative irrealistiche o spingendole a “giustificare” la propria esistenza attraverso azioni straordinarie.
Allargare l’immaginario della disabilità
Prendere coscienza degli stereotipi che affollano la nostra cultura (popolare e non) non significa rinnegarla, ma essere consapevoli di come le nostre opinioni possano essere guidate da ciò che consumiamo. Se l’immaginario contribuisce alla creazione dell’identità, sarebbe importante mostrarne tutte le sfaccettature. Un personaggio con una disabilità non dovrebbe essere sempre eccezionale per poter comparire nei nostri racconti. Non dovrebbe meritarselo per un’intelligenza straordinaria, una sensibilità unica, una vista laser, una medaglia olimpica.
L’immaginario collettivo non è solo uno specchio della nostra società, ma una forza capace di guidare le nostre percezioni e i nostri valori. Per questo è essenziale che rifletta la complessità e la dignità di tutte le persone. Cambiare le storie che raccontiamo non è solo un esercizio creativo: è un primo passo verso una società più giusta, dove ogni individuo possa riconoscersi senza essere ridotto a uno stereotipo o a un simbolo.
La responsabilità di ampliare l’immaginario della disabilità non ricade solo su chi vive con essa, ma su tutti noi. Scrittori, registi e narratori hanno il potere (e il dovere) di creare personaggi che siano più di archetipi. Possiamo immaginare un mondo narrativo in cui la disabilità non sia un’etichetta o un destino, ma solo una delle tante caratteristiche che compongono un personaggio.
Solo quando le persone con disabilità saranno raccontate per ciò che sono, e non per ciò che rappresentano, avremo davvero ampliato il nostro immaginario collettivo. Le storie non cambiano solo il modo in cui vediamo il mondo: cambiano il mondo stesso.