Il valore sociale della parola: riflessioni linguistiche per la vita quotidiana

progetto CIRCE Il valore sociale della parola

Perché linguistica, sociolinguistica ed etnolinguistica ampliano la comprensione della società e rafforzano l’inclusione. Mai sottovalutare il potenziale creativo, o distruttivo, della lingua e il valore sociale della parola.

Ciò che viene esplicitato e reso logico tramite la parola viene compreso, allo stesso modo ciò che viene compreso viene incorporato. “Mettere giù” i pensieri aiuta a concretizzarli e a renderli coerenti, a trasformarli quindi in tasselli palpabili e passibili di un’organizzazione consequenziale che rientra nell’ordine accessibile all’uomo. Se la parola e il discorso hanno il potere di concretizzare a tal punto da, ad esempio, aiutare a uscire da traumi e sofferenze psicologiche, perché non potremmo considerare la forza “attiva e creativa” della parola stessa e l’influenza che questa esercita nelle nostre vite quotidiane? 

«Il mondo si manifesta in un flusso caleidoscopico di impressioni che devono essere organizzate dalle nostre menti, cioè soprattutto dai sistemi linguistici nelle nostre menti. Noi tagliamo a pezzi la natura, la organizziamo in concetti e nel farlo le attribuiamo significati» 

(Benjamin Whorf – Language, Thought and Reality)

La parola che crea

Intorno al VII secolo Bhartṛhari, poeta indiano e uno dei primi grammatici della storia, teorizzò l’idea che la parola e il discorso fossero indissolubilmente legati al ragionamento. Ad attribuire una sfumatura socio-culturale alla questione fu, alla fine del XIX secolo, il padre della sociolinguistica Ferdinand de Saussure. Un antropologo e un linguista svilupparono poco dopo la cosiddetta l’ipotesi di Sapir-Whorf (dal nome, appunto, dei due studiosi) o “ipotesi della relatività linguistica“, secondo cui non solo lingua e pensiero sono strettamente legati, ma agiscono in un rapporto di reciproca determinazione. In estrema sintesi, il modo di esprimersi determina, in qualche misura, il modo di pensare.

Non rimane che prendere in considerazione la connessione che esiste fra parola e pensiero anche al di fuori del contesto meramente accademico e cristallizzato nella teoria, applicandola  quindi alla concretezza della nostra società e facendone una riflessione “socialmente utile”. 

Se la lingua e la parola creano punti di riferimento che diventano strumenti di conoscenza della realtà, è deducibile cosa questo comporti a livello sociale, ovvero la spontanea creazione di “norme” e l’incorporazione di esse tramite il linguaggio stesso. In sostanza, le parole influenzano il giudizio e questo rende la lingua un’arma incredibilmente potente nella gestione delle dinamiche sociali di questo tempo. 

Il valore sociale della parola nella discriminazione

L’uso, ad esempio, del termine “normalità” e di tutte le sue declinazioni dichiara l’esistenza di una media di riferimento a cui si tende ad attribuire un’accezione positiva e che, di controparte, biasima tutto ciò che vi si allontana.

Definendo “non normale” “inconsueto” o, addirittura, “diverso” una persona, un fenomeno o un atto – si tratti di tematiche concernenti l’orientamento sessuale, l’etnia, la conformazione fisica o lo stato di salute – si ricade in un processo di esclusione di questi dalla media normalizzata e accettata.

In un periodo storico dove l’inclusività si pone come tema al centro di ogni dibattito, è necessario prendere consapevolezza del potenziale delle parole come strumenti sorprendentemente efficaci per agire sulla realtà e per marginalizzare l’ingiustizia.

Crolla la critica all’eccesso di correttezza

Potremmo quindi considerare sterile la polemica che taccia di eccessivamente politically correct le questioni inerenti all’inclusività linguistica, magari definendole “mere formalità che non hanno un concreto potenziale d’azione sulla quotidianità”. Apparentemente questa provocazione cessa di avere una validità dal momento in cui non tiene in conto che la pratica linguistica agisce sul nostro giudizio. Non è, ad esempio, la N-Word in quanto agglomerato di lettere che produce un suono a poter essere considerato pericoloso, ma è la portata sociale di cui ormai storicamente si fa carico la parola stessa che crea un potenziale nemico per l’uguaglianza e l’inclusione. 

«Le parole hanno un peso, una forza, una penetrazione nelle coscienze che troppo spesso sottovalutiamo» commenta Fausto Malcovati nel presentare l’Ivan Karamazov di Umberto Orsini. 

 

Sara Scagliarini

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