Il teak, l’avreste mai detto?
Uno dei legni più pregiati al mondo. Resistente alle escursioni termiche, all’umidità, all’attacco della salsedine e degli agenti atmosferici. Un materiale perfetto per i parquet e per l’edilizia. Esteticamente tra i più apprezzati anche nell’architettura di interni. Il teak che nei romanzi dello scrittore Emilio Salgari, viene usato per creare porte, rifugi e fortini, poiché “è talmente duro da resistere alle cannonate anche di grosso calibro e alle granate”. Quello stesso legno che in “Giorni in Birmania” di G. Orwell, viene utilizzato per le case moderne, destinate ai coloni europei e a pochi altri eletti.
Pianta nativa del sudest asiatico e trapiantata con successo anche nella fascia equatoriale africana, è finita al centro dei traffici di una delle più sanguinose guerre civili degli ultimi anni.
Il teak come l’oro e i diamanti
Quando parliamo di ricchezze illegalmente trafugate dai paesi africani, istintivamente la nostra mente corre ai diamanti o all’oro. Non ci verrebbe mai in mente che, dietro a quel mobile o a quegli infissi, potrebbe esserci un lungo tragitto fatto di illegalità e razzie.
Uno dei paesi in cui le piantagioni di teak sono più estese è il Sud Sudan, dove gruppi armati si sono combattuti durante una sanguinosissima guerra civile. Benché sia terminata ufficialmente con un accordo firmato nell’agosto del 2018, ancora oggi, quegli stessi gruppi, si combattono in diverse zone del paese. Una delle loro maggiori fonti di finanziamento è proprio il teak.
Il Sud Sudan viene quotidianamente spogliato di questa ricchezza, razziata a beneficio di pochissimi, che reinvestono il ricavato in armi. Ma il loro guadagno è comunque poca cosa rispetto a quelli degli altri livelli della catena commerciale. Una “ripulitura” legale che porta il teak fino agli appartamenti delle case occidentali.
Sono tanti i rapporti internazionali e i reportage giornalistici che attestano come il teak sia una delle principali fonti di finanziamento dei signori della guerra sud-sudanesi. Lo fa, ad esempio, un articolo pubblicato dall’organizzazione Open Global Rights. Lo fa anche un rapporto del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che nel 2017 afferma come ‘l’estrazione delle risorse sia condotta in contemporanea all’avanzamento delle operazioni militari e per l’arricchimento delle élite’.
Un’operazione di “ripulitura”
Ma come fa il teak raccolto illegalmente ad uscire dal paese e raggiungere i mercati occidentali? Intanto approfittando della legislatura quasi assente e comunque inapplicata che regola le piantagioni del Sud Sudan. In una situazione di conflitto quasi perenne, diventa impossibile controllare quanto accade con le risorse del paese. Uscito dai confini sud-sudanesi il teak prende due strade principali.
La prima si ferma nei paesi confinanti, come Kenya e Uganda. Non essendoci una legislazione che regolamenta il mercato di origine, il legname riceve l’etichetta nel paese di transito. Anche se né Uganda né Kenya sono paesi produttori di teak. Poco importa: una prima ripulitura delle sue origini è stata fatta; così le 120 aziende che si occupano di commerciare legname e hanno sede in questi paesi, possono procedere all’esportazione. A volte, direttamente in Europa. Spesso mischiando il teak sud-sudanese con legname proveniente da zone diverse.
Passaggio in India
Una buona parte del teak sud-sudanese arriva però in India. Come riportato nell’inchiesta – condotta delle giornaliste Romy van der Burgh e Linda van der Pol e pubblicata sul portale The Elephant – secondo dati delle dogane indiane nel 2019 un centinaio di compagnie hanno trasportato in India teak la cui origine è quasi sicuramente sud sudanese. 500 navi, con un carico complessivo di 20mila metri cubi di legname, per un valore ufficiale stimabile in 12 milioni di euro.
In questo modo, dall’India, il teak può raggiungere i mercati europei. D’altra parte, per l’importazione nei paesi europei si deve dimostrare unicamente che il legname proviene da una filiera legale e perciò l’ostacolo si può aggirare con un’etichettatura fasulla. Anche volendo intervenire, il regolamento per la commercializzazione del legname (European Union Timber Regulation), introdotto nel 2013, è rimasto largamente inapplicato. O è stato facilmente aggirato a causa di alcune falle, della complessità delle norme e della mancanza di controlli.
Qualcosa (forse) sta cambiando
Ma qualcosa, forse, sta cambiando. A novembre, ad esempio, il governatore dello stato di Yei, nell’Equatoria Centrale – una delle zone più ricche di piantagioni – è stato sollevato dal suo incarico perché ritenuto responsabile del traffico illegale di teak. Inchiodato da un documentario mentre chiede una tangente di 30mila dollari per facilitare il passaggio di due container carichi di teak.
Anche l’opera di sensibilizzazione delle popolazioni locali si è fatta più intensa ed efficace. Sì, perché il traffico illegale di teak non è solamente uno dei mezzi di finanziamento dei signori della guerra. Si tratta anche di un disastro ambientale che ha provocato l’erosione di una delle principali ricchezze di una nazione già prostrata.
Così, proprio grazie alla denuncia di contadini locali, il mese scorso la polizia sud-sudanese ha arrestato sei ugandesi, sorpresi a tagliare illegalmente legname. Le autorità ugandesi li hanno ripresi incustodita e hanno avviato delle indagini. Un episodio che dimostra come sia la società civile che le autorità, stiano iniziando a prendere coscienza del problema del traffico illegale di teak.
In quanto cittadini europei non possiamo far altro che tenere viva l’attenzione su quanto sta accadendo in Sud Sudan. E chiedere – come consumatori responsabili – che le leggi europee sui traffici illegali (di teak, ma anche di oro, diamanti, cacao…) vengano seriamente applicate, a tutela dei diritti umani nei paesi di origine.
Simone Sciutteri